Destandosi da ciò che pareva una specie di trance, aveva provato per sé una pena profonda, senza con­fronto più grande che se si fosse visto nudo in mezzo a tanta gente ben vestita e perbene: gli occhi bugiardi del sonno gli mostravano le immagini di se stesso disteso sul letto d'ospedale, pallido, tremante e in fin di vita.

A ciò non era disposto a credere.

Un tempo lo scrittore aveva visto demoni di fuoco dai mille colori correre tra le braci rosse del focolare, abitare i ceppi o danzare in un luminoso cerchio di scintille; aveva scorto donne misteriose fra le acque del fiume, fate, silfidi e ondine, che gemevano e sospiravano o cantavano e ride­vano nel monotono mormorio dell'acqua; s'era immaginato d'intravedere forme nell'aria o d'ascoltare suoni misteriosi, forme d'esseri soprannaturali e parole in­decifrabili che nessuno poteva capire; ora credeva nell'orrore cosmico, nell'ineluttabilità del destino e negli esseri che scuotevano le fondamenta della stessa realtà.

Là nel buio, tenendo a freno l'opprimente vertigine dei secoli neri i cui spiriti fluttuavano urtandolo con le loro membrane, immaginò colossi di diaspro, forme create dalla fantasia di teogonie dimenticate.

Ma questa volta, la paura, familiare assediò il suo cuore in modo diverso e affascinante.

Incubi spaventosi e mirabili abitavano di frequente le sue notti, ma nessuno dei mille sogni aveva mai avuto tanta dolorosa vividezza.

Il grido irruppe fra i sogni: "Dalle forma".

Al suo orecchio cominciò a risuonare il rombo di passi.

Si mise a sedere sul letto, dietro la spinta di quell'ordine, ma la posizione subito l'atterrì, come chi soffre di vertigine sull'orlo del precipizio, e riscivolò giù sotto il peso della paura. Il letto era divenuto così ampio da non riuscire a capire dove arrivassero i bordi nemmeno tendendo le braccia sino a farle dolorare. L'impressione e lo stupore lo fecero imprecare, una sola volta, perché sentì che la bestemmia non s'era persa e in qualche posto ne avevano preso debita nota.

Si guardò attorno con occhio ardente e ansioso. Le realtà del mondo l'impressionavano come visioni e niente più che visioni, mentre le folli allucinazioni della regione dei sogni erano materia della sua esistenza quotidiana, la stessa esistenza in assoluto.

Stava ancora sognando?

I passi della cosa che risaliva le scale erano talmente rapidi, pesanti e rumorosi da far tremare l'edificio. Lovecraft cercò di nuovo di fuggire in un angolo senza riuscire a muoversi. Tentò di aprire bocca, ma le parole sgusciavano prima che riuscisse ad afferrarle. Poi udì la porta aprirsi, senti alitare il terribile soffio di segreti mai svelati e l'oscena presenza riempire la stanza.

A quel punto, il terrore parve acquistare una nuova dimensione, come se ghiaccio ripugnante scorresse in ogni vena, alla conqui­sta del cuore. Lovecraft capì che mai prima d'allora aveva saputo cosa fosse la paura.

Ci fu un intervallo d'incoscienza e quando tornò in sé la cosa senza nome gravava su di lui. Non aveva consapevolezza di quel che fosse.

Lo scrittore sentì le sue braccia colpire debolmente, nel tentativo di spezzare la presa strangolante alla gola. Un'implorazione trovò la strada per le labbra, e al suono della sua voce la cosa si ritrasse per un istante, il tempo per riuscire a svincolarsi dalla presa e fuggire.

Corse fuori in strada per invocare aiuto, per chiedere ai passanti di proteggerlo da quella visione di dannazione.

Lovecraft osservò con stupore la città: pur conosciuta, nulla di quella Providence gli era familiare. La notte fuggiva veloce e il vento urlava la sua terribile confes­sione alle fronde allineate lungo il viale. Sulla scena gravava una cap­pa di basse nuvole plumbee, come una visibile maledizione. In tutto ciò v'era una minaccia e un cattivo presagio, un'allusione malefica, un segno del destino, sen­sazioni che molte volte aveva vissuto in sogno ma che non facevano parte delle quotidiane esperienze.

Mentre il silenzio si faceva sempre più greve, più denso, più assoluto, ebbe l'im­pressione d'udire i passi proprio alle sue spalle, passi al ritmo con i suoi. Risuona­vano in un silenzio che mai gli era capitato di provare, quasi come se non si trattasse di un'assenza di suoni, di una barriera tra l'orecchio e il fitto mormorio della vita, bensì di una sostanza impenetrabile, fatta della cessazione universale dell'esistenza e d'ogni movimento. Metteva i brividi. L'impressione era che sta­bilisse i limiti, i margini che delimitavano il nulla dalla vita.