Antonio Margheriti ritorna all’horror dopo La vergine di Norimberga e Danza macabra decidendo di firmare la regia dell’ultimo capitolo di un’ideale trilogia con l’anglofono e più invogliante pseudonimo di Anthony Dawson.
Trama: Ci troviamo nel XV secolo e la caccia alle streghe è al suo culmine. Una donna è condannata a morte con l’accusa di aver assassinato il duca regnante, ma un attimo prima di morire sul rogo lancia una terribile maledizione sui responsabili della sua condanna e su tutti i presenti all’esecuzione. Anni dopo, l’anatema arriva inesorabile a raccogliere i frutti dell’odio e della superstizione.
Perché vederlo: Margheriti mette in scena un horror elegante, legato ai temi classici del cinema gotico e dunque del romanzo ottocentesco. Il film ha una trama non particolarmente originale compensata da un’ottima ambientazione tardo medievale che, asfissiante, mostra un mondo brulicante di cospiratori intenti a ordire assassini, spettri ben lieti di abbandonare le mortali spoglie perché la propria vendetta sia compiuta e candide fanciulle insidiate da uomini dall’animo tutt’altro che immacolato. Il regista sceglie ancora una volta il bianco e nero dopo la parentesi in technicolor de La vergine di Norimberga e questa volta non si tratta di una costrizione dovuta alla mancanza di mezzi, bensì a una decisione stilistica molto ben ponderata. Danno buona prova delle proprie capacità la bella Halina Zalewska e George Ardisson, ma lo scettro da scream queen spetta ancora una volta a Barbara Steele che come sempre arricchisce la pellicola di un fascino macabro ineguagliabile e che in questa occasione si macchia della grave colpa di mostrare un seno. Sono in molti però a dubitare che quel corpo seminudo appartenga proprio a lei, l’attrice infatti ha il volto coperto dai capelli durante tutta la scena. Il principale protagonista del film è il tristo mietitore che con successo sparge il suo morbo sul mondo per poi tornare a riscuotere, senza remora alcuna, le anime dei malvagi così come quelle dei giusti. Nonostante la presenza soffocante della morte, l’elemento fantastico è ridotto a poco più che un mero accessorio, necessario solamente all’estetica. Sono le irrefrenabili passioni degli uomini a sconvolgere le vite dei personaggi, il perverso signore del maniero è infatti asservito all’alcol e alla lussuria, due demoni molto più terreni che sovrumani. La solida struttura narrativa pur rimanendo coerente non è esente da difetti, come l’impostazione eccessivamente teatrale di alcuni attori, tutti mitigati dalla straordinaria regia e dalla lancinante fotografia di Riccardo Pallottini. Margheriti, anche lui impeccabile curatore degli effetti speciali, nel dare vita alla sua opera non manca di ispirarsi a un grande maestro quale Mario Bava. La fascinazione procuratagli dalla visione de La maschera del demonio fa si che il film si apra con la scena dell’uccisione della strega, un altro punto di incontro con il cinema di Bava è rappresentato dalla scena in cui il volto decomposto di Barbara Steele viene lentamente ricostruito, rimando all’invecchiamento di Gianna Maria Canale ne I vampiri. Margheriti con questo film mette in scena un gotico da manuale e non teme di mostrare tutto l’orrore che c’è da mostrare. La storia può quindi concludersi così come era iniziata, tra le fiamme.
Curiosità: Halina Zalewska e Barbara Steele portano entrambe il cognome Karnstein, lo stesso che lo scrittore Sheridan Le Fanu sceglie per la vampira Carmilla.
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