Sara annuì, masticando con la bocca stracolma.– Hosso avehe lo huccheho?
– Eh?
La bimba deglutì in fretta. – Hai zucchero?
– No. Ma non devi mangiare lo zucchero, hai capito?
La bimba inclinò la testa da un lato.
– Lo zucchero fa male… ai dentini – spiegò Marco, serio. E per un breve istante ricordò, rabbrividendo, quella volta quando un altro dei bambini morti era venuto a trovarlo. Dopo che aveva insistito tanto, gli aveva dato un cucchiaino di zucchero, lui era rimasto zitto per un po’ e poi era scappato, come impazzito, e Marco aveva visto che era entrato nel cimitero e aveva tentato di scavare la terra con le mani per rimettersi sotto. Poi era diventato trasparente e non l’aveva mai più visto.
– Oh – fece Sara. – Occhei…
Marco sospirò, guardandola mentre mangiava. Una sensazione che la sua mente di bambino non riusciva a tradurre in parole: il fascino di quegli esseri era qualcosa di sacro. E terribile. La mamma, ne era sicuro, non riusciva a vederli. Né a capire. Infatti, l’ultima volta che aveva provato a spiegarle che ogni tanto i bambini morti entravano nel suo lettino, lei il mattino dopo lo aveva portato da un dottore. Che non era proprio un dottore, perché non è che ti sentiva il cuoricino o ti diceva respira forte, però ti faceva delle domande e poi, serio, si scriveva quello che rispondevi.
Guardò Sara.
– Dove abitav… iti? Dove abiti?
– Qua vicino.
– Che classe fai?
La bambina, che aveva dato un altro morso al panino, mostrò tre dita.
– Sei più piccola di me…
Di nuovo Sara masticò più in fretta. Deglutì. – Perché, tu che classe fai?
Una manina aperta a segnalare un bel cinque.
– La quinta?
– Mh-mh.
– Ah.
– Perché sei venuta qua a casa mia?
– … Herché... – Sara masticò. – Pehché là non hono entrata.
– Là dove?
Sara si strinse nelle spalle.
– Sai che ci sono stato anch’io da dove vieni tu?
– Ma tu sei morto?
– Non lo so bene. Secondo me sì, una volta.
Lei restò a fissarlo per un po’. – Come?
– Mmm?
– Come, una volta? Quando muori, poi muori.
– Eh, non lo so.
Silenzio.
– Cos’hai visto? – chiese Marco.
– Là? Io mi ricordo – rispose Sara – che c’era… è difficile da spiegare. Un’entrata, ma non era una porta o altro, però era… – mosse le mani a indicare un cerchio – una cosa dove entravi, tutta bianca.
Marco annuì. – Sì, anch’io l’ho vista.
Rumore di chiavi nella toppa. La mamma era tornata a casa. – Cavoli.
– Cosa c’è, chi c’è?
– Mia mamma.
– E allora?
– Lei non ti vede. Bisogna che – Marco abbassò la voce – facciamo piano piano, capito?
– Sì – sussurrò Sara. – Occhei…
Marco restò a guardarla per un po’, pensoso. Annuì verso le scale. – Torniamo su – disse.
– Nella tua cameretta?
– Sì.
Sara appoggiò il bicchiere di latte e lo seguì.
I due bambini salirono la scala, Marco in testa.
– Che anno sei nata? – le chiese lui facendola entrare. Richiuse la porta.
– In che anno?
– Sì, che anno sei nata.
– Duemilauno.
Marco alzò le sopracciglia. Si sedette a gambe incrociate sul tappeto, lei lo imitò. – Oh!
– Oh che?
– Mi sa che sei tornata indietro, allora. Qui è il millenovecentoottantatre.
Sara rimase a fissare Marco per un po’. – Aspetta – disse.
– Che?
– Forse il duemilauno non sono nata, sono morta.
– Sei sicura?
– Credo di sì.
– E come sei nata? Cioè! Come sei morta?
Sara scosse la testa, guardando Marco con preoccupazione.
– Anche gli altri non se lo ricordavano – la rassicurò Marco. Poi, dopo averci pensato un po’ su: – Nel duemilauno ci sono le astronavi?
La porta della cameretta si aprì con uno scatto, e i due bambini alzarono gli occhi verso la donna.
– Ma… che pasticci hai combinato in cucina?
– Avevamo fame.
– Avevamo… chi, chi è venuto?
– Avevo fame.
La mamma lo guardò. – Mh. Hai fatto i compiti?
Il bimbo annuì con rapidi cenni del capo.
– Va bene… – La mamma aggrottò un po’ la fronte, perlustrando con gli occhi la cameretta. – Che freddo che fa qui dentro… – mormorò, come parlando con se stessa.
– Forse potresti alzare il termo – disse Marco.
La mamma restò a guardarlo. Guardò di nuovo nella stanza, abbassando le sopracciglia. Sembrò provare l’impulso di dire qualcosa e mosse un passo in avanti con gli occhi sgranati, ma alla fine parve anche rendersi conto che… non aveva nessun senso. – Hai… fatto i compiti, vero? – ripeté.
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