Marco prese il camioncino dei pompieri e lo mosse in avanti, facendogli fare una curva un po’ spericolata. Mormorando assorto il verso di una sirena, lo condusse nel punto del corridoio dove aveva deciso che era scoppiato l’incendio. Ora fece parlare qualche omino che era dentro al camion: dovevano sbrigarsi.
Erano le quattro del pomeriggio di un giorno d’estate del 1983 e la mamma era andata in paese a comprare delle cose e poi aveva detto che si sarebbe fermata dalla parrucchiera e sarebbe tornata più tardi.
Marco si fermò per un momento, tendendo l’orecchio verso i rumori che provenivano dalla sua cameretta, al piano di sopra. Le molle del lettino stavano cigolando un po’: qualcuno si era sdraiato e si stava muovendo.
Riprese a giocare, muovendo di nuovo il camioncino dei pompieri nel corridoio. Ancora più silenziosamente, con un presentimento.
Aveva dieci anni e, anche se ricordava tutto come una specie di sogno confuso, era morto qualche anno prima, a causa di una puntura d’insetto, al cui veleno era allergico.
Lo era rimasto, in quello strano buio denso, esattamente per 2 minuti e 25 secondi.
Adesso, quattro anni più tardi, stava bene e sapeva anche che, almeno un po’, quel buio denso aveva cambiato delle cose. Perché non c’era stato solo oscurità, in quei brevi minuti, ma anche immagini annebbiate e distorte, che ogni tanto si ripresentavano di notte in incubi per i quali si svegliava piangendo o urlando nel suo lettino. Soprattutto, i suoi dieci anni erano diversi da quelli dei suoi coetanei, a causa di quello che, in seguito a quell’esperienza, Marco era in grado di vedere ora.
Fermò il camioncino, tendendo l’orecchio: molle che cigolavano. L’incendio poteva attendere. Guardò verso le scale che conducevano al piano di sopra, e deglutì.
Le scale si arrotolavano come un serpente e scomparivano nel buio.
Rimase a fissarle per un po’, poi, ad un nuovo cigolìo, emise un sospiro tremolante. Non aveva tanta voglia di andare su a vedere chi c’era, però voleva farlo prima che tornasse la mamma.
Entrò nella stanza senza accendere la luce. Il bambino sdraiato nel letto si rizzò a sedere, guardandolo. Marco vide il bianco dei suoi occhi.
– Ciao. – Mosse un passo in avanti, piano. Il bambino scese dal letto.
No, era una bambina. Con i capelli neri, un po’ tagliati corti.
– Ciao… – ripeté Marco. Sussurrando. – Come ti chiami?
Avvicinandosi di un altro passo, vide che la bambina corrugava la fronte e increspava le labbra.
– Ti viene da piangere?
Lei fu sul punto di rispondere qualcosa. Poi chiuse la bocca e annuì.
– Perché?
In un sussurro: – Freddo.
– No, che non fa più freddo, senti?
La bimba si strinse nelle braccia, guardandosi intorno.
– Se vuoi quando torna la mia mamma le dico di alzare il termo – propose Marco.
– Ma… dov’è, qua? – piagnucolò la bambina, muovendo freneticamente gli occhi per tutta la stanza.
– A casa mia.
– Ah?
– Lì ci dormo io.
La piccola scosse la testa. Mosse le labbra tremolanti. – Io ero morta! – riuscì a protestare alla fine.
– Eh, lo so.
– E e e e prima. E prima. – La bambina tirò su col naso. – E prima ero al al al al cimitero. E e e c’era tutto buio e mi avevano messo dentro una… una…
Marco le fece cenno di attendere. – ’Spetta! – Andò verso la finestra, piano, e sollevò le tapparelle.
La bambina si parò immeditamente gli occhi, coprendo il visetto con le braccia. La sua pelle era bianchissima, tranne quella sottile sotto gli occhi, che era quasi nera; le labbra scure, violacee, un po’ tirate sulle gengive. Si ritirò in un angolo della stanza rimasto in penombra, rannicchiandosi.
– No no, non fa male. – Di nuovo, Marco le si avvicinò. – Non fa male.
– No, invece mi fa male!
– Come ti chiami?
– Sara – rispose subito lei, ma sempre col volto nascosto.
– Io mi chiamo Marco.
– Ah…
– Prova ad aprire gli occhietti. Guarda che non c’è nessuno che ti farà del male, qua.
Sara, dopo un po’, abbassò le braccia. Dischiuse le palpebre, lentamente, abituando gli occhi alla luce… e guardò Marco.
– Davvero?
– Mh-mh – annuì Marco.
Il visetto della bimba era scheletrico. Solo gli occhi, grandi e umidi, come sotto una maschera grottesca, mostravano l’incapacità di capire cosa fosse successo e cosa stesse succedendo.
Marco le sorrise.
In cucina la guardò mentre mangiava un panino con il prosciutto e beveva un bicchierone di latte.
– Avevi fame?
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