Un uomo osserva sua moglie fare la spesa: La donna attende ai bordi della strada. Una Cadillac Eldorado del ’72 le piomba a tutta velocità, sterzando volontariamente per ucciderla. Passano cinque anni e il vedovo, a bordo si una Plymouth Barracuda del ’68 conduce una mortale partita con il serial killer della El Dorado, che continua a mietere vittime per le autostrade americane. La partita fra i due coinvolgerà anche l’unica vittima del killer sopravvissuta e un poliziotto specializzato nell’analisi degli incidenti automobilistici.
Robert Harmon chiude un ideale circolo della tensione on the road aperto vent’anni prima con il suo The Hitcher e lo fa con una pellicola asciutta e secca come i paesaggi desertici che dipinge. Affida al volto intenso di Jim Caveziel il ruolo del man with a mission e a Rhona Mitra quello della brunetta del destino ma le vere protagoniste degli ottanta minuti sono le due macchine e il paesaggio circostante.
L’Eldorado zannuta appare fin da subito macchina infernale ben più credibile della vecchia Christine e la Barracuda riesce a reggere il confronto con l’altro mostro di metallo a suon di rombi e frenate.
Harmon mostra eccellente polso nelle scene maggiormente concitate e alcuni degli scontri strappano un sussulto anche al più smaliziato degli spettatori grazie al montaggio molto furbo e up to date. L’altro campo nel quale eccelle il regista (reduce, lo ricordiamo, dall’inguardabile They) è il tratteggio del paesaggio che alterna assolate distese desertiche a iperrealistici quadri notturni che, complice la colonna sonora, sembrano usciti da The Big Heat di Stan Ridgway.
Allora dove fallisce il film? Highwaymen crolla vistosamente proprio nel mancato sviluppo e approfondimento delle premesse più interessanti e gran parte della colpa è, con ogni probabilità, da attribuire agli sceneggiatori.
La figura del serial killer (condannato alla sedia a rotelle e provvisto di varie protesi), vero e proprio mostro cronenberg/ballardiano non viene esplorata a sufficienza e se l’acciaio delle auto in Crash dettava la via a un nuovo eros qui ci si limita alla pura caratterizzazione esteriore senza nulla dire dell’intimo rapporto fra carne e metallo (il killer in pratica vive a bordo dell’auto, dotata di comandi particolari e, come lui, “cieca” da un fanale) che avrebbe potuto creare una dialettica interessantissima.
Altro dato stimolante prima accennato e poi subito scartato è quello di un neo-alfabeto da porre accanto alla nuova carne martoriata e miscelata al ferro, quella scrittura formata dalle frenate, dai segni delle gomme sulla strada, dai rottami delle auto che, afferma il poliziotto esperto di incidenti, narrano ognuno la propria storia e possono essere letti da chi ne conosce l’alfabeto.
Materiale che sotto la direzione di un regista più accorto avrebbe potuto generare una memorabile pellicola di quel nuovo orrore che attendiamo da troppo tempo. Nelle mani di Harmon tutto ciò si trasforma in una vicenda ricca sì di momenti d’azione ad alto tasso adrenalinico ma priva di genio e di gusto del macabro, vicenda che sfocia infine in un atroce lieto fine che lascia in bocca un sapore di telefilm ben girato.
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