In un imprecisato ma molto prossimo futuro la Francia, in seguito a un accadimento misterioso, è scenario d’Apocalisse: mancano l’acqua e il cibo, lo Stato è inesistente e pochi treni sfrecciano per la campagna portando i più fortunati verso un’ipotetica salvezza. Anna, suo marito e due figli, arrivati nella loro casa vicino al bosco la trovano occupata da fuggitivi uno dei quali uccide il marito della donna obbligandola a vagare con i figli in cerca di un rifugio. Anna si muoverà per campi e boschi in cerca di rifugio ma dovrà affrontare il lato più bestiale dell’umanità divenuta simile a lupi rabbiosi.
E’ singolare che nello stesso momento siano usciti in sala due film che affrontano lo stesso argomento (l’Apocalisse) in maniera insanabilmente distante per mezzi, tecnica, scelte di sceneggiatura e risoluzione. Laddove il film di Emmerich (L'alba del giorno dopo) urla e strepita nella babilonica messa in scena della catastrofe ecco che Michael Haneke sceglie di sussurrare e suggerire; mentre la pellicola statunitense copre con stupefacenti effetti speciali altrettanto stupefacenti buchi di sceneggiatura il cineasta austriaco sfrutta la luce naturale, la campagna e pochi ambienti scarni per rafforzare ancora più la potenza del suo script.
Ne Il tempo dei lupi non ci sono mad doctor ghignanti che spiegano cosa è successo, perché l’umanità sia ridotta a branchi di sopravvissuti che vagano vicino alle rotaie aspettando un treno che li salvi. E’ il fato che accade inesorabile e che spazza via le persone, avvelena l’acqua e i rapporti umani, riduce l’uomo a lupo nella più classica lezione hobbesiana (magari abusata ma, quando viene illustrata con tale chiarezza e maestria, sempre ben accolta anche nella sua ripetizione). La scena iniziale, con la famiglia che entra nella casa e la trova occupata da un gruppo speculare è già segno magistrale di quello che ci aspetta nelle due ore seguenti: il fato ha scelto, la famiglia di Anna possiede ricchezze e felicità mentre gli occupanti sono miseri, affamati e disperati ma con un semplice gesto, un solo sparo, la situazione si ribalta catastroficamente. E i “cattivi” in questa storia non si lasciano andare a discorsi lunghissimi sul perché agiscono così, sparano e basta. Comincia così l’angosciosa odissea di Anna (Isabelle Huppert, leggermente fuori ruolo, regala comunque sguardi intensi e alieni per tutta la prima parte) e dei suoi due figli, insieme cammino iniziatico e percorso di formazione.
Haneke, con un rigore formale che si stempera nel metafisico e nel simbolismo (vengono addirittura citati i 36 saggi di Borges) dipinge una allucinata migrazione che a tratti richiama gli zombi di romeriana memoria e a tratti sfrutta echi pittorici (il regista austriaco ricorda un Goya della celluloide, specie nei falò notturni che costellano il paesaggio e nei quali ardono carcasse di animali), aiutato in questo dal rifiuto dell’effetto speciale e dall’uso della luce naturale che genera alcune sequenze impressionanti (quella forma biancastra, intravista per pochi istanti nell’oscurità, atterrisce più di mille mostri craveniani...). Notevole anche la scelta di rifuggire dalle soluzioni più banali, la violenza non viene quasi mai rappresentata con facile sensazionalismo e spesso il regista sposta l’attenzione e l’inquadratura su particolari, facendo recitare gambe, oggetti, parti del corpo evitando con fortunata cocciutaggine l’ovvio e il già visto.
Haneke ci ha abituati a prove che miscelano orrore inesorabile a un pessimismo cupo e profondo, dal freddo sadismo di Funny Games al vetrificato masochismo de La Pianista, e la lezione ultima comune a tutte le sue prove è sempre stata quella della desolazione, della scomparsa dei rapporti civili e sentimentali. Questo suo ultimo lungometraggio non è da meno, con due ore di angoscia e medioevo, con madri che si prostituiscono per qualche litro d’acqua e uomini che per quella stessa acqua lasciano morire dei bambini senza battere ciglio. Il ladro e l’assassino trionfano senza essere puniti e la colpa sembra ricadere sulle loro vittime che anelano alla scomparsa, chi nel suicidio chi in quella forma più elevata e mistica del suicidio che è il sacrificio. Eppure, nella sua ora più buia, Haneke sembra trovare un breve anelito di speranza condensata su schermo vuoi nella musica di Beethoven vuoi nell’inevitabile amore che cerca ostinatamente (umanamente?) di trovare comunque la sua strada fra le rovine.
Non è film da consigliare a cuor leggero, lontano com’è dalla gioia e dal trionfalismo della gran parte delle pellicole in sala ma è una visione che, vi garantiamo, rimarrà dentro il cuore ben più a lungo di una New York congelata in fretta e furia.
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