La stanza è vuota, con le finestre bloccate e le persiane socchiuse. Non un mobile, un tavolo, un segno di vita qualunque. Nemmeno un quadro che spezzi il bianco delle pareti; solo una sedia al centro.
Avanzo, respiro piano e mi siedo. Non bisogna fare rumore. Non si deve.
Osservo strisce di sole penetrare le imposte. Illuminano fasci di polvere fluttuante. Alito forte e i granelli, roteando, impazziscono; poi tornano calmi dov’erano. Tutte le settimane mi portano qui. Sempre così da due mesi. Dicono che mi devo curare.
Mio padre resta al piano di sotto, troppo forte per lui. Invece mia moglie lascia che m’incammini da solo per il corridoio. All’inizio mi stava vicino, poi non più. Dice che devo fidarmi.
Anche i dottori si sono arresi, senza vergogna e con le tasche piene. Non rimane loro che questo incapace. Tra poco mi sarà davanti col suo bel camice lungo, la sciarpa appoggiata sulle spalle e gli strumenti di tortura in mano.
Allora eccomi, con la rabbia che cresce, perché tutte le volte mi faccio ingannare come uno stupido. Quello che provo qui dentro è rabbia e dolore. E mia moglie e mio padre lo sanno, per questo non entrano più.
Eccolo che arriva, apre la porta e sorride quando mi vede.
Non sono sorpreso.
— Come stai, oggi? — mi chiede senza salutare, ma non rispondo perché comincio a stare male. La sua presenza mi turba. E non è mai solo. Quei quattro con lui mi faranno male quando metteranno le loro sporche mani su di me per tenermi fermo. Sono forti, hanno braccia robuste, e alla fine di ogni cura mi lasciano lividi che non vanno via. Dicono che me li procuro da solo, ma come potrei? Non sono mica pazzo, io.
Comincio a scrutarli uno per uno e la rabbia cresce. Li odio. Si avvicinano e ho paura, mentre quello col camice resta calmo, in piedi di fronte a me. Gli altri invece mi circondano e cominciano a recitare una delle loro litanie.
Tra poco mi sconvolgeranno la mente. Hanno cominciato la cura!
È lui che comanda. Ed è pronto. Si tocca la fronte, poi le spalle una alla volta, alza la mano sopra la testa afferrando il suo strumento peggiore e mi guarda dritto negli occhi.
Lui lo può fare. Non ha paura di me, lui.
Avvicina alla mia faccia quel legnetto che stringe fra le dita e sento la pelle bruciare. Mi fa male. È come se penetrasse la carne.
Sputo e lo centro sul petto. Quelli di lato mi afferrano tutti insieme, stringendo polsi e caviglie. Cerco di liberarmi, strattonando, ma loro serrano più forte.
— Vi odio! Lasciatemi stare! — Urlo, e sento l’eco rabbioso della voce.
Quello di fronte, invece, non si scompone, non si pulisce nemmeno, pronuncia parole strane che mi bruciano dentro come un fuoco.
Allora lo supplico con un filo di voce: — Zitto, per favore! Non ti voglio ascoltare! — Poi grido con tutto il fiato che ho dentro: — Finiscila di torturarmi! Maledetto, lasciami stare!
Mi butta dell’acqua addosso che brucia la pelle e non capisco più niente.
— Che diavolo vuoi da me? — finalmente la voce rauca esce fuori potente, graffiandomi la gola.
— Ecco! Hai detto bene, — mi risponde calmo. — Voglio proprio te! —
Rimango in silenzio. Lo scruto con il terrore che possa farmi ancora del male. Non sono padrone delle mie azioni, sembra tutto lontano, ma l’ira che ho dentro monta ed esplode.
— Porco! Servo maledetto, non mi avrai. — Urlo con forza.
— Quid est nomen tuum? — chiede, urlando più forte di me e lanciandomi ancora dell’acqua sul viso.
— Mi fai male! Smettila. Non mi avrai mai, uomo — rispondo, scalciando.
— Te lo chiedo ancora una volta. Quid est nomen tuum?
— Tu non capisci. Non puoi comandarmi. Decido io quello che deve accadere, e adesso non voglio!
— Vomita! — mi ordina.
Mi piego in avanti con la bocca invasa da un sapore tremendo.
— Lasciami stare! — riesco a biascicare prima di allagare il pavimento ai miei piedi.
— Liberati! Vomita tutto! — incalza ancora.
Rialzo lo sguardo. A terra un liquido marrone e un puzzo tremendo.
— Tu non sai di cosa sono capace, uomo. Non ti dirò mai il mio nome, quello vero che nascondo dentro.
— Dovrai dirmelo presto. Aspetterò, e sarà la tua fine! Hai combattuto poco oggi, sei sempre più debole! — mi torna a parlare con voce pacata. — Ora che hai vomitato il tuo male, lasciami abbracciare questo figlio!
8 commenti
Aggiungi un commentoOttimo racconto Antonio, il tema della possessione diabolica ha un fascino perverso su di me. Sarà forse perché sono agnostico? Il ritmo è incalzante e incuriosisce il punto di vista - davvero originale - del posseduto. L'unica nota stonata, a mio avviso, è la dolcezza con cui il prete si rivolge all'uomo. Credo che in una situazione del genere ci voglia polso fermo e durezza, insomma minor compassione. Ma è solo una mia lettura. In ogni caso mi è molto piaciuto.
Niente di nuovo...sembra che si sia limitato a descrivere una scena tratta dal film "il rito" con Antony Hopkins.
Certo, non c'è mai nulla di nuovo, la capacità è riuscire a descrivere la situazione e a rendere le sensazioni in modo efficace, e in questo Antonio Tenisci ci è riuscito perfettamente. Un bel racconto.
Grazie lia e grazie a tutti.
Non mi ero mai proposto con un racconto horror e i vostri apprezzamenti sono molto graditi.
L'avevo già letto tempo fa, ma "ora", leggendolo grazie a ciò che tu sai, lo apprezzo ancora di più. Sta proprio in quello il dinosauro, il nuovo modo di raccontare. Bravissimo!
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