Al di là di ogni forma di rappresentazione istituzionale, lontanissimo dalle “erranze” e le “veggenze” delle avanguardie, oltre la schiavitù del visibilismo degli autori hollywoodizzati, c'è un altro tipo di cinema. Un linguaggio fatto di ironia postmoderna, citazionismo e decostruzionismo, caratterizzato da uno stile irrompente, che si fa strada tra i frammenti sparsi di sobrie strutture perfette. Un cinema dissacrante, dichiaratamente banale, dove la sensazione pura prevale sul senso, in cui ogni personaggio è una possibilità narrativa.
Da qui è scaturito Machete. Puro diarismo, dal retrogusto fiction, impossibile da circoscrivere, con un soggetto e una fabula procrastinabili all'infinito. Un flusso di immagini ed eventi, dove ogni inquadratura provoca uno strano effetto riflessivo, così che sembra di trovarsi di fronte a una presa diretta dell'impulso creativo del regista, della sua apertura nei confronti del mondo e della vita.
Il risultato? Un patchwork spazio-temporale di violenza, sarcasmo e immaginazione.
Abbondano le domande che di solito usiamo rivolgere agli spettacoli sul grande schermo, domande tipicamente da fare a qualunque film, ma non adatte a un lavoro di questo genere. Ci si sente imbranati, scaraventati da una testualità a un'altra, da un brandello a un altro brandello, tra schizzi di sangue e sudore, la faccia butterata del protagonista e il volto angelico di Jessica Alba (Sin City, 2005, The Eye, 2008), e di fronte all'ostentata freddezza di Danny Trejo (Grindhouse, 2007, Predators, 2010) non possiamo che sorridere divertiti.
È così che Robert Rodriguez (Dal tramonto all'alba, 1996, Sin City, 2005, Grindhouse, 2007) svela apertamente le caratteristiche che distinguono il suo modo di fare cinema da quello di Tarantino (Pulp Fiction, 1994, Kill Bill vol. 1 e 2, 2003, 2004). Uno stile che prende le mosse dallo stesso terreno, per poi seguire una strada diversa. Machete, non a caso scaturito dal fake trailer presente in Grindhouse, è la dichiarazione di come lo scopo principale del regista texano sia quello di intrattenere improvvisando. Risulta facile rileggere il vissuto in sala come un'esperienza di gioco, in cui Rodriguez elabora e incastra elementi di ogni tipo, a suo piacimento, giostrandosi tra il pulp e lo splatter, condendo l'insieme con tanto sangue, comica violenza, sesso caricaturizzato e autoironia.
In tutto questo la trama importa poco. La vendetta di un ex agente federale messicano, tradito dall'organizzazione che lo ha assoldato per far fuori un senatore (interpretato da uno spassoso Robert de Niro), non è storia imperdibile. Ma le rarissime battute di Trejo sono pesanti come pietre e le vicende si susseguono a ritmo altissimo. Così lo spettatore viene colpito al cuore attraverso intelligenti meccanismi e l'attenzione si sposta soprattutto sulla singola azione, come se l'intero film fosse una collezione di clip, ognuno già valido di per se stesso.
Il film non manca anche di tirare qualche frustata. La satira sulle politiche di immigrazione statunitensi e sui rigurgiti razzisti che inquinano ancora il paese della libertà, rende il nachos di Rodriguez ancora più piccante. Ma ciò che alla fine pesa di più resta comunque il "body count", il punteggio finale del video game, calcolato sul numero di uccisioni, i boss sconfitti e il livello di efferatezza delle "special movie".
Bonus da record per le improbabili conquiste sentimentali. Sì perché, in perfetta continuità con Planet Terror (il secondo episodio di Grindhouse), le donne che girano attorno a Danny Trejo, oltre a trasudare sensualità, sono estremamente combattive. Michelle Rodriguez (Avatar, 2009) e Jessica Alba lo dimostrano, ma ancora di più la "nun with gun" Lindsay Lohan (Mean Girls, 2004), icona trash davvero impareggiabile.
E se Butch in Pulp Fiction, per liberare Marsellus Wallace, scelse la katana, Machete per la sua vendetta non poteva che scegliere se stesso. Ecco dunque una rivoluzione in atto, quella in cui ogni personaggio potrà decidere i parametri estetici della messa in scena e dove ogni mossa attiverà nello spettatore un immaginario di genere. Ecco l'ultimo giocattolo di Rodriguez, un catalogo di vignette da collezione, un puzzle di mosse speciali in cui dappertutto si può aprire un varco temporale, sicché ciascun pezzo è sequel o prequel di qualche altro pezzo. Il tutto a favore del più puro "divertissment". E come per un fumetto, aspettiamo il prossimo numero.
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