"But if at the Church they would give us some Ale
And a pleasant fire, our souls to regale;
We'd sing and we'd pray, all the live-long day;
Nor ever ance wish from the Church to stray"
-William Blake
Il lunedì sera è pantofolaio per tradizione. La domenica è ormai un ricordo, gli oneri professionali sono al massimo del loro splendore e la mente si prepara ad affrontare ciò che ci separa da un week-end ancora lontano. Il divano ci ammalia coi suoi canti, il pigiama brama solo di poterci abbracciare. Sono poche le cose in grado dissuaderci da tali tentazioni. Ma se esiste qualcuno al mondo in grado di creare un incantesimo più forte di tutto ciò, questi sono i Wovenhand.
Il Magnolia è un circolo ARCI che organizza eventi live di estremo interesse con una frequenza ragguardevole. Situato nei pressi dell'aeroporto di Linate, che sia estate o che sia inverno, il Magnolia offre occasione di godere di ottima musica a un prezzo accessibile anche per chi di soldi in tasca ne ha pochi. La gestione da parte di fonici è un po' altalenante e non sempre all'altezza delle band proposte, ma, se il lavoro viene svolto bene come in questo caso, l'acustica risulta di essere di tutto rispetto.
I Seven seas duet di Loukas Metaxas sono già sul palco quando arriviamo. Il duo di polistrumentisti è dedito a musica newage dal gusto orientale (indicata sul loro myspace come chinese pop/zouk), realizzata principalmente tramite percussioni e strumenti a corda. Pur essendo incuriositi dall'utilizzo che la coppia fa della sua pittoresca strumentazione, la musica non riesce a coinvolgere, e solo in parte il pubblico sembra esserne in qualche modo scaldato. Anche le loro apparizioni al fianco dei Wovenhand non sembrano essere dotate di particolare colore. A nostro avviso, dato il loro spessore, gli headliner avrebbero potuto scegliere una band di supporto più coinvolgente.
David Eugene Edwards da vita ai Wovenhand nel 2001, come progetto solista durante una pausa dalla band di cui era frontman, i Sixteen horsepower, alternative country band nativa del Colorado. Passano quattro anni e, mentre i Wovenhand danno vita a un album come Blush music, forse il più originale della loro carriera, i Sixteen horsepower si sciolgono, consentendo a Edwards di concentrarsi interamente su quello che è diventato qualcosa di più di un side-project. Subito dopo la pubblicazione di Mosaic, Pascal Humbert, ex-bassista degli stessi Sixteen horsepower, decide di raggiungerlo in questa nuova avventura, dando vita nel 2010 al quinto studio album della creatura di Edwards, il maturo The threshingfloor e al conseguente tour in giro per il mondo.
Quello che stupisce fin dal primo ascolto della musica di Edwards è la capacità di miscelare magicamente la musica nativa americana con elementi neofolk e medievali. Su queste direttive si vengono a inserire sonorità peculiari, rubate a volte all'elettronica, altre volte al rock progressivo, all'industrial music, ma anche al dark wave (evidente l'influenza di band come i Joy division) e all'ambient dai toni più oscuri (di cui abbonda lo splendido Blush music). Tutto però sembra quasi fatto di nascosto, come se ci venisse offerta una tisana fumante nella quale il nostro ospite ha disciolto sostanze di cui vuole celarci la natura. Così, tra le note del banjo e quelle della chitarra elettrica, i fumi del synth si intrufolano nelle nostre narici, inebriandoci di caldi profumi, mentre la delicata architettura delle percussioni scandisce i tempi del rituale.
Sinking hands, uno dei brani di apertura del concerto e dell'album, spalanca le porte di un cristianesimo sciamanico, immergendoci in un mondo denso di spiritualità.
Seguono brani come The threshingfloor (title-track dell'ultimo lavoro), che ci ammalia con la sua ritmica nativa, da cui sbocciano germogli di erbe misteriose. Accompagnati dalla calda voce di Edwards, una varietà di strumenti timidamente si guadagna il suo angolo.
Le tematiche cristiane, incentrate sul dualismo colpa/redenzione, permeano ogni verso dei testi composti dal front-man, che tra un brano e l'altro ci delizia, insieme ai suoi musicisti, con degli intermezzi evocativi, in cui le atmosfere e le sonorità dell'ambient più cupo prendono prepotentemente il sopravvento. Come fosse in trance, il cantante gesticola e si agita, con gli occhi sempre chiusi e il volto perennemente segnato da quel suo strano broncio. Un'aura avvolge il pubblico, mentre le litanie di Edwards sembrano evocare spiriti provenienti da un deserto roccioso.
Scorrono così brani vecchi e nuovi, tra cui Raise her hands e His rest, per rimanere sull'ultimo album, o Dirty blue e Whistling girl di Mosaic. Tra un brano e l'altro, si interpongono solo i rituali di Edwards, il quale imbraccia alternativamente un banjo, una solid body o una semi-acustica. Nelle retrovie, basso, batteria, synth e percussioni varie si cimentano nell'arduo compito di sostenere il gigante, dando vita a uno degli spettacoli più affascinanti in cui ci possa imbattere.
Tutti i brani assumono un sapore diverso da quello che hanno su disco: la freddezza del supporto digitale viene spazzata via dal calore avvolgente dei toni bassi, mentre le distorsioni danno quel tocco di cattiveria in più che su disco sembrano essere l'unico tallone d'Achille della band. Insomma, se si stesse cercando la prova che è dal vivo che una band mostra davvero quello che vale, i Wovenhand sono uno dei migliori esempi sul mercato.
Tuttavia sarebbe un errore sottovalutare il valore assunto da un album come The threshingfloor all'interno di un impianto stereo. Se da un lato è vero che la magia live viene a mancare, dall'altro questo non deve in alcun modo sminuire questa musica, a prescindere dalla modalità con cui viene fruita. D'altronde, lo scopo di questa rubrica è quello di dare a voi lettori un punto di partenza per l'ascolto e di accogliere i vostri commenti. Leggere cosa ne pensate di The threshingfloor vorrebbe dire per noi aver raggiunto il principale dei nostri obiettivi.
I Wovenhand si trattengono sul palco un'ora e mezza, eppure lasciano un pubblico che, di lunedì notte, ha ancora voglia di loro. I bis non mancano e il gigante si guadagna gli applausi che sembra ormai essere abituato ad accogliere. Insomma tutt'altro che una band di serie B, che merita ben più di un'opportunità. Vi lasciamo con il link al myspace della band e con un paio di assaggi del live, che speriamo gradiate nonostante possano dare solo un'idea vaga di quello che questi americani sono in grado di offrire. Teneteli d'occhio e non lasciatevi sfuggire la prossima occasione. Concedere una possibilità a The threshingfloor è un imperativo per tutti gli amanti della musica di qualsiasi genere.
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