Andrea riuscì a entrare nel palazzo. Schiodò due assi in una delle finestre del pianterreno e si ritrovò in una stanza invasa da polvere e ragnatele, i mobili coperti da lenzuola bianche. Un forte odore di chiuso e umidità. Sembrava impossibile che qualcuno potesse vivere là dentro. Fece luce con una torcia elettrica. Trovata una porta, afferrò la maniglia, l’abbassò e spinse; con un suono lieve, di migliaia d’ali d’insetti, il legno si ridusse pioggia di polvere marcia. Il ragazzo rimase a contemplare la maniglia di bronzo che gl’era rimasta in mano: un mostruso serpente di mare. Gettò via quell’oggetto che rovinò per il cortile con un frastuono assordante. Le mura sembrarono risvegliarsi da un lungo letargo. Il cortile rimandò un’eco sorda, di digestione ciclopica, una finestra si spalancò di colpo e fracassò di vetri rotti. Andrea alzò lo sguardo e vide il velluto rosso d’una tenda agitarsi.
No, non si sbagliava: una delle sorelle, in un barocco abito nero, stava attraversando la stanza con il candelabro acceso. Andrea corse per il ballatoio seguendo la luce che si spostava lenta. Batté una spalla contro un vaso di pietra, la torcia elettrica gli sfuggì di mano e cadde nel cortile; finì a terra stampando un cono luminoso che rese abbagliante il marmo d’una statua crollata. Un busto di donna sfregiato; un seno mutilato, guancia e fronte corrose, labbra e naso scheggiati, occhi intatti, bianchissimi. Non aveva tempo di recuperare la torcia, doveva seguire la traccia del candelabro. Attraversò una soglia, si ritrovò in un lungo e vasto ambiente.
Con la leggerezza dei fantasmi, la ragazza avanzava, candelabro in mano, in una galleria dalle pareti interamente coperte da specchi. Specchi bruniti dal tempo, invasi da una fitta ossidazione che l’aveva corrosi come corpi lebbra. Il pavimento d’intarsi marmorei s’accendeva, spegnendosi sulla scia dello strascico di merletti neri, leggermente brillanti. La donna s’arrestò. Il chiarore si rincorse nell’infinito riflettersi degli specchi e si concentrò intorno a lei, inglobandola come una mandorla luminosa di un’antica icona. Girò lenta il viso.
Lunghi capelli mori con riflessi blu, pelle candida, labbra d’un doloroso rosso fragola, occhi nero petrolio, luminosissimi. Sì, c’era una nota di verde sottobosco in fondo alle pupille. La ragazza, ogni senso all’erta, restò in ascolto.
Silenzio. Andrea spalle contro uno specchio. Le ombre lo proteggevano. Che lei riuscisse a rintracciare il suo respiro? Le ricche gonne frusciarono come nido di serpi; la donna s’era girata interamente, la mano bianco avorio sull’argento del candelabro. Il petto si sollevava ritmico, calmo; un rettangolo di velo scendeva dal collo fino al pube lasciando in trasparenza il seno, il ventre piatto e l’incavo del pube, di bambola di porcellana.
– Vieni, Andrea – liberò un braccio nudo la donna dall’ampia manica.
Il ragazzo sentì ghiacciare le vene; non solo l’aveva scoperto, sapeva anche il suo nome. Com’era possibile?
Restò paralizzato contro lo specchio. I volant e i rigonfi dell’abito della donna erano percorsi da un continuo, oscuro brillare.
– Vieni... – ripeté in un sussulto leggero dei cappezzoli rosa.
Era vera carne quella o una materia liscia e insensibile come plastica?
– Vieni... – ripeté ancora, con voce calda e lontana, riflessa da un gioco d’eco. – Non avrai paura di me? – aggiunse facendo un passo in avanti, in un effetto flou d’ologramma.
– Come conosci il mio nome? – ebbe il coraggio di chiedere Andrea.
– Ti conosco da molto tempo... – e quella voce restò un poco nell’aria prima di sfogliarsi come rosa appassita.
– Come fai a conoscermi?
– Lo sai, abito qui con le mie sorelle. T’ho visto molte volte alla finestra.
– Tutti pensano che questo palazzo sia disabitato.
La ragazza continuava a fissarlo, le pupille color petrolio intensificarono le sfumature verde sottobosco. Le labbra rosa fragola s’incresparono e finalmente sciolsero l’enigma del sorriso in un’aperta risata. Ridendo, si voltò e, in un lampo nerazzurro dei lunghi capelli, prese a correre nella galleria degli specchi seguita da un vortice d’ombre e riflessi. Sparì in fondo alla galleria in un dissolversi di risa e frusciare di vesti. Tutto cadde nel buio; non restò che l’odore della cera fusa, polvere e un vago aroma di viole. Andrea, ancora addossato allo specchio, credette d’aver sognato. Quella galleria era vuota, lo era anche pochi secondi prima e, forse, lo era sempre stata.
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