– E tu! Maledetto finocchio. La vuoi ammazzare questa specie di marionetta?

– Cavolo… – Non riuscii a dire altro. La mandibola mi sparava dolore al cervello a ogni battito del cuore. E non ero per niente rilassato.

– Ok, lo faccio io. Così te ne vai.

Afferrò il cofano con entrambe le mani, diede uno strattone. Un fiotto di sangue m’investì il viso. Boccheggiai e sputai per prendere aria. Mi tolsi il sangue dagli occhi col palmo della mano appena in tempo per vedere Marco ruotare il busto e caricare il colpo.

Il cofano divenne un’ascia dalle dimensioni spropositate. La testa della ragazzina saltò come il tappo di una bottiglia di spumante, solo che il liquido che fuoriuscì non era brachetto del Piemonte.

– Bene, ora levati dalle palle. Forza, sparisci! – mi urlò contro.

Io mi rialzai ma non ci fu alcun pop. Ero ancora nel Barbainferno, inzuppato dal sangue di almeno tre indemoniati, e avevo la mandibola lussata. Questo per essere ottimista. E il cielo era ancora di un terribile bianco abbagliante.

– Perché non vai via? – gridò ancora.

Lo feci così, perché desideravo farlo da prima ancora di conoscerlo. Marco mi stava davvero antipatico, per questo quando raccolsi una bella pietra che mi riempiva tutto il palmo e la usai a mo’ di maglio per colpirgli il naso, sentii che nonostante tutto ci si può sentire bene anche nelle situazioni più schifose.

Marco crollò a terra e questa volta toccò a me urlare.

– Forse perché l’hai ammazzata tu, fesso di un cofano arrugginito?

– No. – La voce del vecchio.

Era appoggiato allo stipite della porta. Si strinse di nuovo le bende del moncherino e indicò alle mie spalle.

– È perché hai fatto quaterna, ragazet – disse.

Tre grossi uomini stavano correndo verso di me, sollevando la terra alle loro spalle come enormi camion da cross. Due indossavano canottiere, l’altro era a torso nudo. Uno era armato di un volante da camion, due avevano lunghe tavole di legno spruzzate di calce.

– Hai fatto fuori una squadra di muratori. E forse anche la figlia di uno di loro.

– Oh, merda! – sussurrai. Guardai Marco.

Perdeva sangue a fiotti.

– Mi dài una mano?

Raccolse una bracciata di terra inumidita e se la infilò nel torace scavato per rallentare l’emorragia.

– Sempre meglio loro che te.

I tre muratori erano davvero imbufaliti. Al loro passaggio le foglie di barbabietole saltavano via come petali di margherita, con la differenza che i tre spargi-calce non stavano venendo da me con l’intenzione di inginocchiarsi per una dichiarazione d’amore, quanto per regalarmi un volante per collana e due assi da appendere ai lobi delle orecchie.

Raccolsi l’ammortizzatore sfuggito a Jessica durante la caduta.

Marco raccolse il suo cofano-decapitatore.

Guardai Jessica. Mi sorrideva, accoccolata a terra.

Contava sui tre muratori. Dovevo aver fatto davvero colpo su di lei.

Mi misi in posizione d’attacco, poi mi venne l’idea.

– Tienili a bada, arrivo subito!

– Che fai? Mi lasci solo, cagasotto?

– Ho detto che torno.

Corsi verso la casa.

Il vecchio immaginò subito le mie intenzioni. Si parò di fronte all’ingresso. Per tutta risposta, roteando il braccio dal basso verso l’alto, lo colpii alle palle con l’ammortizzatore. Il vecchio si piegò in due dal dolore e quando mi offrì la nuca, gli assestai un altro colpo.

Stramazzò al suolo, immobile.

Cominciai a martellare le pietre che davano forma alla gabbia del Pazzo.

Lui iniziò un lamento intermittente. Secondo me se la stava ridendo perché aveva capito.

Le cinghie e i pezzi di tessuto che tenevano su la gabbia si allentavano colpo dopo colpo. Qualche pietra venne via, anche nei punti dove non avevo colpito.

Il Pazzo mi stava aiutando.

La costruzione crollò senza preavviso. Pietre piccole e grandi rotolarono ovunque.

Apparve un giovane dai capelli lunghi e unti attaccati al viso. Legata alla fronte aveva una fascia floreale multicolore. Le lunghe basette si congiungevano sotto il mento in una barbetta lanuginosa. Indossava un vestito a fiori sporco di terra e, a completare l’opera, sul naso gli pendeva sghembo un paio di Ray-Ban senza una lente e una stanghetta. Sembrava un Capitan Harlock strafatto di ritorno dal fango di Woodstock.

Il pazzo sputò la pietra che teneva in bocca e mi sorrise senza denti.

– Gvazie! Ti amo.

Poi emise un grido stridulo alla Ian Gillan e iniziò a raccogliere i sassi che fino a qualche secondo prima erano stati la sua prigione.