Pubblicato nel 1819 sul New Monthly Magazine, The Vampyre (in italiano Il Vampiro) è il racconto che può essere considerato alla base della letteratura moderna e contemporanea sui vampiri, l’atto di nascita dell’ormai classica figura del Principe delle Tenebre.
In effetti, ci fu un tempo, meno lontano di quanto si pensi, in cui la parola “vampiro” non richiamava subito alla mente immagini di tenebrosi e affascinanti stranieri, di spettrali manieri illuminati dalla luce della luna o di amori maledetti e tormentati. Nelle storie e nelle cronache di mezza Europa, il vampiro tipico era sempre stato tutt’altro. Nella quasi totalità dei casi si trattava del cadavere di un contadino, un pastore o magari un artigiano che, animato da una scintilla di bestiale malvagità, abbandonava il tumulo e si aggirava goffamente per il suo villaggio, dissanguando capi di bestiame o i suoi familiari, per poi rientrare nella propria tomba, gonfio e intorpidito dall’abbondante pasto, ad attendere placidamente di essere impalettato e bruciato sulla pubblica piazza da una folla inferocita.
Persino alla famigerata baronessa Bathory, durante il processo per i suoi numerosi omicidi, nessuno si sognò mai di affibbiare la plebea accusa di bere il sangue delle sue vittime.
Eppure il solo The Vampyre, nonostante una genesi difficile e un autore semi-sconosciuto, bastò a spazzare via dall’immaginario collettivo questa lunga tradizione, e a condannare all’oblio i poco eleganti Vurdalak, Vrikolaki e Nosferatu di tante leggende.
L’origine dell’opera è interessante quasi quanto il racconto stesso. Nel giugno del 1816 un gruppo di intellettuali riuniti a Villa Diodati, sul lago di Ginevra, decise di ingannare le noiose giornate di un’estate piovosa leggendo una raccolta di storie di fantasmi tedeschi, Phantasmagoriana. Tra i presenti vi erano anche i poeti inglesi George Byron e Percy B. Shelley, oltre alla giovane amante di quest’ultimo, Mary Wollstonecraft Godwin (meglio nota in seguito come Mary Shelley), e il medico personale di Byron, John William Polidori.
La compagnia fu profondamente colpita dalla lettura di quelle storie (una ricostruzione romanzata degli eventi di Villa Diodati è stata data da Ken Russell nel film Gothic del 1986), tanto che Byron lanciò una sfida ai presenti: ciascuno di loro avrebbe dovuto scrivere un racconto dell’orrore. La proposta suscitò un immediato entusiasmo, che si esaurì però in fretta: Byron stesso non andò oltre la stesura di un frammento di racconto, e solo due degli altri partecipanti alla sfida crearono effettivamente una storia del terrore.
Una di questi fu Mary Shelley, che pubblicò due anni dopo il suo Frankenstein. L’altro fu Polidori, che, dopo aver composto il mediocre racconto Ernestus Berthold, decise di sfogare il risentimento causatogli dai continui contrasti con Byron riprendendo il frammento composto dal poeta e completandolo. Scrisse una storia di vampiri, e per scherno modellò il mostro sul suo illustre paziente, assegnandogli anche il nome di Ruthven, lo stesso che Caroline Lamb, amante delusa di Byron, aveva usato alcuni anni prima nel romanzo Glenarvon come pseudonimo del poeta.
The Vampyre fu pubblicato inizialmente proprio a firma di Byron: forse fu un’ulteriore beffa, o forse una manovra dell’editore per assicurarsi maggiore visibilità. Qualunque fosse il motivo, il successo fu enorme e immediato: il racconto fu tradotto in tutta Europa, ne furono prodotti adattamenti teatrali, se ne scrissero seguiti. La popolarità del vampiro salì alle stelle, e la letteratura gotica si arricchì di una creatura che non l’avrebbe più abbandonata.
Cos’ha di tanto speciale questo racconto per aver suscitato una tale impressione? La trama, di per sé, è piuttosto semplice e lineare: un giovane rampollo dell’aristocrazia inglese viene coinvolto in un viaggio da un misterioso e affascinante lord, di cui diventa succube e che si rivela essere più di ciò che sembra, e si trova a dover scegliere tra l’onore e l’affetto quando sua sorella diventa la preda prescelta della mostruosa creatura. Ma su questa esile impalcatura viene costruito un racconto che, benché possa apparire ingenuo al lettore moderno abituato alle storie di vampiri, ha un perfetto meccanismo interno, e in cui non mancano amore e morte, scenari esotici, fanciulle in pericolo, innocenti minacciati dalla corruzione e un oscuro e malvagio manipolatore: in pratica tutti gli elementi che avevano portato al successo i romanzi gotici di Ann Radcliffe o Matthew Lewis.
Oltre a questo, però, il racconto proponeva anche una novità assoluta: lord Ruthven, il vampiro, è quanto di più lontano possa esserci dai non-morti delle leggende. E’ un uomo che appartiene all’alta società, affascinante e intelligente, capace di attirare l’attenzione delle donne senza apparentemente curarsene. Ed è animato da una malvagità che ha del diabolico: non contento di nutrirsi del sangue di vergini innocenti, Ruthven si dedica attivamente a corrompere gli animi deboli, a rovinare la reputazione di giovani donne di buona famiglia, a gettare sul lastrico al tavolo da gioco ingenui padri di famiglia, senza perdere mai un attimo la sua maschera di freddezza e impassibilità. Una figura titanica, solitaria e tenebrosa, che spicca ancora di più accanto all’evanescente Aubrey, il supposto eroe della storia, e che sembra costruita appositamente per essere in sintonia con la nuova sensibilità romantica. Una perfetta fusione tra passato e presente che segnò in modo indelebile l’immaginario del suo tempo.
Polidori basò il suo vampiro sulle leggende greche e balcaniche, fornendogli caratteristiche che sono rimaste quasi uniche nel corpus della letteratura vampirica: Ruthven sembra non avere nessuna delle tradizionali avversioni dei non-morti, ma anche le sue capacità sembrano limitarsi a un carisma soprannaturale e a una forza fuori del comune. Può persino essere ucciso da armi normali, salvo poi resuscitare se il cadavere è esposto alla luce lunare.
Ma più che le qualità mostruose di Ruthven, furono quelle umane a fare scuola. Le storie sui vampiri si moltiplicarono, e benché alcuni autori tentassero di riportarli alle loro origini popolari, furono i raffinati e affascinanti gentiluomini succhiasangue, e le loro controparti femminili, a dominare la scena letteraria: personaggi come Varney, Carmilla, Clarimonde e Kostaki conquistarono il pubblico e gli intellettuali, fino alla consacrazione con il Dracula di Bram Stoker. Ormai era definitivo: abbandonate le loro origini campagnole, i vampiri avevano conquistato di diritto l’accesso alla classe aristocratica.
Questo fiorire di storie moderne e complesse, slegate dall’eredità del passato, fecero presto dimenticare The Vampyre. Il fascino di questa pietra miliare della letteratura dell’orrore resta tuttavia intatto, tanto che autori contemporanei non smettono di rendergli omaggio. In tempi recenti le citazioni più importanti sono state quelle di Kim Newman e Tom Holland: il primo ha recuperato il personaggio di lord Ruthven in Anno Dracula, il secondo ha trasformato Byron e Polidori in vampiri nei suoi romanzi The vampyre (per l’appunto!) e Supping with Panthers.
1 commenti
Aggiungi un commentoCiao Domenico,
era un po' che volevo leggere il tuo pezzo, perché il titolo mi aveva attratta.
Ma non mi ha convinta del tutto.
E' scritto molto bene, documentato nei minimi particolari, ma non vedrei in "The Vampyre" il primo racconto sui vampiri, forse il primo "successo".
Ok, mi parli di un determinato tipo di vampiro e fin qui siamo d'accordo. Se prendiamo, per esempio, la "Christabel" di Coleridge, troviamo un vampirismo più cerebrale che mentale. Stessa cosa succede in "Thalaba the Destroyer" di Southney. Ma il sangue è già anche negli "Inni alla Notte" di Novalis o nella "Lamia" di Keats.
E che dire di De Sade e dei suoi libertini bevitori di sangue? Be', non erano esattamente cadaveri di contadini...
Per dire, io avrei estratto anche un altro pezzo di radice.
Comunque ottimo.
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