Il numero 447 di Dylan Dog, Hazel la morta, mescola molti elementi diversi in un intreccio non-lineare, con un effetto di spaesamento prodotto da un contesto narrativo che continua a scivolare senza sosta da un riferimento all’altro: un parco isolato, una strega impiccata, una maledizione lanciata via cellulare, dispositivi elettronici posseduti, bullismo di gruppo, adolescenti con un segreto in comune e ciascuno col suo segreto personale, un’Intelligenza Artificiale maligna, la morte che incombe, il tempo che scorre, il suicidio come game-over, ambienti che si modificano, la realtà come simulazione, il tempo che si riavvolge su se stesso…
I disegni che illustrano la storia rendono visivamente questa sorta di patchwork, lanciando il lettore da una scena all’altra senza dargli il tempo di realizzare cosa le colleghi, o di rendersi conto se il collegamento sia solo assente. Per giunta, la sceneggiatura cerca di imitare in qualche modo lo stile con cui l’avrebbe scritta una IA, inserendo qua e là dei glitch, ovvero delle anomalie simili a quelle che possono derivare dagli errori di funzionamento di un programma.
Toccherà a Dylan Dog, come si può facilmente immaginare, far da collante e filo conduttore di una storia volutamente ingarbugliata, inseguendo i fili sparsi di una trama che continua a sfilacciarsi, nel tentativo di venirne a capo in un modo o nell’altro, con la sua personalissima e inimitabile tecnica investigativa, in cui si trovano mescolati dubbi e intuizioni, incertezze, paure, determinazione, cantonate e lampi di genio.
L’albo è presentato come il secondo di una serie di tre che hanno come tema comune l’Intelligenza Artificiale (il precedente era “L’altro lato dello specchio”, mentre il prossimo sarà “Anatomia dell’anima”). In questo specifico caso, il tema è declinato principalmente su due direttrici: la prima è l’incorporeità sostanziale degli algoritmi che formano una IA. La IA della storia, ma di fatto vale per ciascuna IA, è una sorta di fantasma elettronico, privo di un vero corpo e libero di scorrazzare all’interno dei nostri dispositivi, come se li possedesse. Ma cosa accomuna questo fantasma digitale ad Hazel la morta che bussa alla porta, come canticchiano a un certo punto i personaggi della storia?
Una IA di fatto controlla i dispositivi con i quali è interfacciata, e a volte ci dà la sensazione di avere una volontà propria che si oppone alla nostra, il che la rende per definizione maligna, o quantomeno fastidiosa e persecutoria. La storia di quest’albo non fa altro che esasperare alquanto, come si conviene a una fiction (in specie di tipo horrorifico), le caratteristiche reali delle IA e dei programmi con cui abbiamo a che fare ogni giorno.
La seconda direttrice narrativa sposta la questione su un piano ontologico più radicale. Anziché chiederci se le IA possono diventare (o addirittura essere già) delle persone sintetiche con cui sarà (o forse è) possibile non solo interloquire ma anche interagire, potremmo essere costretti a chiederci se il loro piano di esistenza sia semplicemente diverso dal nostro, o se magari sia lo stesso.
“Non ho mai avuto davvero una possibilità di scelta”, pensa a un certo punto Dylan Dog, “e, probabilmente, nessuno ce l’ha”. Questa sua riflessione arriva subito dopo un interrogativo che gli viene posto sulla sua certezza di essere reale. Se la realtà simulata di una IA può debordare fino a invadere la realtà, che cosa ci può garantire che non ci stiamo dibattendo all’interno di una gigantesca simulazione?
Di più, ciascuno di noi potrebbe vivere nella sua simulazione personale, senza alcun vero contatto con le simulazioni personali degli altri.
Questo è forse il dubbio più inquietante, perché va a saldare le nostre moderne angosce ad angosce solipsistiche di vecchia data. In fondo, l’unico modo che abbiamo per superare il dubbio che l’intero mondo sia un’illusione è il fatto di poter condividere le nostre percezioni con quelle degli altri, cercando (non senza fatica) di farle combaciare.
Se questa possibilità ci scivola via dalle mani, non ci rimane molto altro a cui aggrapparci. La paura dell’inganno presuppone un ingannatore, ed è per questo che si preferisce addossare a qualcuno la colpa di volerci nascondere la verità, piuttosto di pensare che la verità non esista affatto, o che sia semplicemente fuori dalla nostra portata. Per Dylan Dog la ricerca della verità coincide con il tentativo di aiutare gli altri, e questo lo rende reale quanto e più di una persona in carne e ossa.
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