A proposito di scrittori, figli di uno scrittore, che siano anche figli schiacciati dal padre, il primo nome che di solito viene in mente è quello di Klaus Mann. L'altro è quello di Michel Bernanos. E i due sono accomunati anche dalla tragica morte, entrambi morirono infatti suicidi: Mann a quarantadue anni nel 1949, Bernanos a quarantuno nel 1964.
Un anno prima di togliersi la vita nella foresta di Fontainebleau, Bernanos scrisse un romanzo, pubblicato postumo, intitolato La montagna morta della vita (in Italia è stato tradotto da Diana Artom per il "Pesanervi" di Bompiani).
Un libro di rara bellezza che da solo dovrebbe bastare a farci ricordare di Georges Bernanos come il padre di Michel e non di Michel come il figlio di Georges.
Parere condiviso da Michele Mari che firma la postfazione di questa nuova edizione di La montagna morta della vita, appena pubblicato da Edizioni Hypnos.
Si tratta di un libro visionario e allucinato che trasporta il lettore in un'altra dimensione spazio-temporale.
La montagna morta della vita è diviso in due parti distinte.
Nella prima, di ambientazione marinaresca, il narratore si imbarca come mozzo su una nave. Racconta così le vessazioni a cui è sottoposto dagli altri componenti dell'equipaggio, e sembra quasi di leggere degli stralci della biografia dello scrittore inglese William Hope Hodgson, che ha allo stesso modo riportato le dure esperienze di vita marinara.
Anche l'atmosfera costruita da Bernanos deve molto a Hodgson, in particolare a romanzi come Naufragio nell'ignoto e I pirati fantasma e ai racconti di mare (pubblicati sempre da Hypnos in tre volumi a cura di Pietro Guarriello), ma anche a Le avventure di Gordon Pym di Edgar Allan Poe e all'opera di Robert Louis Stevenson.
Inizialmente non si fa riferimento a elementi soprannaturali, ma su tutto aleggia un senso di morte palpabile. Ne è un esempio la scena in cui viene descritto lo scoppio di follia tra i marinai.
Nella seconda parte, la tempesta è la porta che conduce a una sorta di "altro mondo" retto da leggi innaturali: il sole del colore del sangue e la vegetazione lussureggiante composta da enormi e terribili piante carnivore.
Sullo sfondo, si staglia una catena di montagne verso cui gli alberi al tramonto si genuflettono come in un rito ancestrale di origine ignota. E ancora statue di pietra dai lineamenti spaventosi e altissime vette rossastre e l'istinto di sopravvivenza che si mescola al desiderio di autodistruzione e di ricongiungimento con il sacro.
Il finale è straniante. Epico e cosmico degno di Lovecraft e Poe, pregno di un orrore metafisico e allucinato che rende questo romanzo potente e originale al di là dei possibili riferimenti.
La traduzione è di Elena Furlan mentre, oltre alla citata postfazione di Michele Mari, troviamo anche un corposo saggio di Juan Asensio.
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