Amante degli horror fin da piccolo (abbiamo circa due anni e mezzo di differenza di età) da sempre litigavamo sulla qualità dei libri.
Una sorta di schieramento che vedeva me strenuamente messa a difesa della vera letteratura, i classici, e lui a insistere che l'horror, era un genere di livello pari ai miei amati James, Balzac e Wilde.
Anatema!
E così, dopo una sua asfissiante insistenza, non solo promisi di leggere il suo mito, il Re (il primo libro fu gli occhi del drago) ma anche di guardare i suoi film preferiti, considerati dei capolavori assoluti.
Non vi nego che fui terrorizzata.
Sia da IT (anche se a terrorizzarmi non fu tanto il pagliaccio satanico, quando la stasi e la quiescenza della cittadina complice) sia da Shining.
Non scorderò mai l'impatto con quei corridoi luminosi in cui un bambino altrettanto psicotico quando il mitico Jack, percorreva con il suono agghiacciante di quel maledetto triciclo.
Labirinti più che corridoi, resi ancor più claustrofobici dalla luminosità eccessiva che, solo dopo, scoprii fosse un ingegnoso stratagemma del genio di Kubrick.
Shining rimase ed è rimasto per molto tempo nel mio immaginario.
Un esempio di orrore, l'orrore giusto che mi ha sedotto fino a farmi innamorare non tanto dei film quanto del genere letterario.
Tanto che poi, famelicamente, ho iniziato a leggere ogni libro possibile affrontando anche quei classici da cui mi tenevo debitamente al largo.
E cosi Poe, Lovecraft, Meyrink, e persino il sommo Bierce, allietarono le mie notti di adolescente con quelle funeree atmosfere, con quella notte tenebrosa, quasi rassicurante nel suo incedere a passo felpato verso la famelica Moira.
Ma Shining resta dentro di me.
Con le sue strane suggestioni, con quell'oniricità che ti fa perdere dentro la trama che sospende per un attimo la tua razionalità.
Perché il film è questo.
Un intero lungometraggio di paure folli, di strane apparizioni, di eventi che sembrano perdere ogni legame con il reale, con il tempo e con la logicità.
Passato e presente svaniscono quasi inglobati in quell'hotel perduto nel nulla, che in fondo, è il vero unico protagonista.
Poi è stato grazie a un saggio che Eleonora della Gatta mi ha aiutato a comprendere (solo lei regina della paura poteva) perché, dopo tanto tempo, sono ancora terrorizzata da Shining.
Perché il capolavoro di Kubrick è impossibile da eguagliare, perché resta li serafico e apparentemente addormentato in un angolo della nostra coscienza, pronto a balzare felino a ogni nostra distrazione.
E ci colpisce riportandoci un quel tempo di sogno che è perturbante perché non contempla risveglio.
Ecco la parola chiave.
Perturbante.
E a tal proposito l'autrice si serve del famoso saggio freudiano che affronta questo tema a noi caro e su cui forse, si basano ogni paura infantile e non solo.
Shining rispecchia appieno la definizione dataci da Freud
Il perturbante, ci dice Freud, è ciò che si manifesta contemporaneamente come qualcosa che è noto o, per essere più precisi, come qualcosa che era noto precedentemente la rimozione di quel qualcosa, per poi riaffiorare in superficie ponendosi in netto contrasto con ciò che fino a quel momento era stato avvalorato dall’esperienza personale, empirica e non, del soggetto perturbato.
Shining fa riaffiorare, dunque, qualcosa dentro di noi che si agita nel torbido, che si nutre di ombra, che razionalmente pensiamo di aver combattuto.
Shining è il nostro mostro sottoterra, che rapisce l'animo infantile e si nutre di esso beandosi della pedissequa tendenza umana a ignorare ciò che è davvero pericoloso.
Si ignora il male, si ignorano i residui logici che adombrano ogni intenzione di una luce malsana, si ignora ciò che Shining racchiude.
Che è la favola eterna del lupo cattivo, della strega di Hansel e Gretel che minaccia uno dei luoghi protettivi per eccellenza, la nostra casa o peggio la nostra mente.
Shining si presenta cosi come una gabbia, immensa e luminosa, piena però di fantasmi che della luce di nutrono e si beano.
Non siamo più al sicuro.
Ed ecco che sottolineo una delle peggiori/migliori caratteristiche di Shining: deride gli stereotipi.
O forse, se mi si permette, mette a posto i concetti donando loro la più pura delle essenze.
Infatti, Kubrick prende il binomio luce/tenebre usato spesso negli horror e lo stravolge.
Sono le tenebre che proteggono dal male perché, forse, ci rendono invisibili ai demoni, perché azzerano per un attimo la loro acuta fame.
Ed è la luce, invece, a dare loro asilo, a accoglierli.
Ed è nella luminosità di corridoi senza fine che il male, in Shining, si manifesta.
È nella camera assolata, seppur con luci artificiali, che una della più terrificanti scene, la seduzione della morte, si compie.
È li che Jack Torrance fa il suo primo incontro con la corruzione travestita, anche qua torna un archetipo dimenticato, la sensuale maliarda.
E che, invece, lo specchio magico, rivelatore, fa apparire come una vecchia in putrefazione.
Ecco che la luce diviene simbolo di ciò che all'ombra serve per esistere. Senza luce, infatti, non possiamo vedere i contorni stabiliti delle cose, e le ombre non possono emergere dal loro anonimato.
È con l'oscurità che esiste la vera luce, poiché il nero racchiude ogni colore, quindi risolve stranamente gli opposti.
Per le antiche popolazioni denominate celtiche il nero, quindi, il bruno, era la vera, autentica luce che lottava contro la falsa il bianco che in realtà respingeva ogni colore.
Ecco che Kubrick ci ripropone un qualcosa che abbiamo voluto dimenticare facendo diventare, appunto, il film perturbante.
Stravolgendo le coppie duali buio-male e luce-bene, Kubrick lega tutto il senso di orrore del film alla luce, che solitamente dovrebbe essere latrice di sicurezza.
Ed è quindi il binomio buio e luce che viene letteralmente stravolto nel corso della trama e che contribuirà a disorientare in maniere profonda la psiche e non solo conscia ma anche inconscia.
Perché l’essere umano è abituato alla presenza del doppio e della dicotomia.
Fa della differenziazione il luogo felice in cui sostare, il mondo rassicurante dove rendere intelligibile quel mondo che, invece è in realtà ignoto e tale vuole restare.
Shining, nell’intento di Kubrick, deve eliminare nel ricevente ogni sensazione di logica e di sicurezza e pertanto stravolgerà altri cliché tipici dell’horror, fino a creare una ragnatela vischiosa con cui intrappolare noi, le prede ambite.
Con Shining ci si smarrisce.
Nella follia lasciata a briglia sciolta di un uomo che i suoi demoni non li ha addomesticati.
Di un ragazzino che ha una luccicanza o dei poteri che rinnega creando quasi un alter ego, in una madre che sembra soltanto un pupazzo, contenitrice di ogni cliché possibile sulla femminilità. Wendy è all’inizio docile e sprovveduta.
È impegnata eseguire quasi ossessivamente ogni gesto che il suo ruolo richiede, lentamente, quasi come se fosse perennemente addormentata. Si occupa della caldaia, prepara da mangiare, usa la radio. Eppure nonostante abbia ogni mezzo cognitivo per intuire il dramma che presto le busserà alla porta è l’ultima che si accorgerà che, dietro il velo del consueto, si cela l’orrore.
E cosi Wendy è un energia femminile pertanto intuitiva, totalmente annichilita dalla potenza della rabbia folle impersonata da Torrance.
Una rabbia di cui l'hotel si nutre.
Di cui ha bisogno per svegliarsi dal suo torpore.
L'Overlook diviene quindi un essere senziente la cui condizione essenziale è di alimentare un rancore atavico, un senso di vendetta che si trasforma in distruzione, violenze perpetrate nei secoli, che hanno nutrito le sue fondamenta, e che si manifesta nella scena più terrorizzante del film, ossia l'ascensore che si apre lasciando che una cascata di sangue venga assorbita dalla struttura.
E di che violenza intende parlarci Kubrick, quale onta scatena questo demone che ingloba le anime?
E la razionalità che invade e insozza il terreno del sacro.
Un hotel, simbolo del capitalismo sfrenato costruito su un antico cimitero indiano.
Nel momento in cui la costruzione di un simbolo del capitalismo intende soggiogare ogni senso del sacro, il sacro si ribella creando a sua volta un feticcio che si nutre di tutti coloro che, questo sistema, lo accettano e lo sostengono.
È quindi un film che tra i suoi significati ha anche la denuncia per il genocidio dei nativi?
Ci piace pensarlo.
Del resto la scena appena descritta ricorda, spaventosamente il brano di de Andrè, Sand Creek
Le lacrime più piccole
Le lacrime più grosse
Quando l'albero della neve
Fiorì di stelle rosse
Si son presi il nostro cuore sotto una coperta scura
Sotto una luna morta piccola dormivamo senza paura
Ad ogni modo, leggendo questo straordinario saggio non si può non comprendere un elemento: ci sono film che sono eterni proprio perché, forse, la spiegazione razionale ci sfugge e resta solo la nostra anima, quel la più segreta a vibrare a ogni scena, a ogni flash a ogni fotogramma.
Ed è quello l'importante.
Che almeno la nostra coscienza assorbe le suggestioni perturbanti di Kubrick.
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