Se si pensa all’immagine di un metallaro duro e puro, si pensa a Pietro Gandolfi, autore italiano indipendente classe 1979. Pietro rispetta con coerenza il fatto di avere i capelli lunghissimi, indossare bracciali borchiati e scrivere romanzi horror.
L’orrore può essere molte cose, […] ma non può mai lasciare indifferenti
scrive nella prefazione di The Noise, il suo primo fumetto da sceneggiatore. La trama si basa su un rumore che fa impazzire le persone; potrebbe essere la voce dell’universo, è cominciato all’improvviso e senza motivo, non si ferma, annulla la ragione delle sue vittime facendo sanguinare loro occhi e orecchie. Ha trasformato l’umanità in zombie violenti senza possibilità di ritorno.
In questo contesto splatterpunk, The Noise non propone solo situazioni estreme e degenerate, ma anche il dramma umano degli immuni al rumore, le sofferenze dei sopravvissuti a quella società convulsa.
La serie prosegue secondo un suo ritmo lontano dalle logiche del mercato.
Questo, in Italia, ha incontrato il suo spazio.
Da dove trai ispirazione per le tue storie?
Succede in mille modi diversi, perché uno spunto si può annidare ovunque. Certi episodi avvenuti nella realtà possono aiutare. L’idea di base di solito emerge fra le righe di qualcosa che leggo. Una frase che accende l’ispirazione, facendomi dire: “Perché l’autore non ci ha pensato? Lo faccio io!”. A volte, le più fortunate, riesco a sognare e rielaborarlo in una storia.
Perché proprio la scrittura come mezzo per raccontare storie?
È il mezzo più primitivo per raccontare qualcosa. La scrittura sta alla base di tutto e rappresenta una fucina di idee. Nella sua semplicità, è il prodotto che appassiona più di qualunque altro. Attraverso la scrittura riesco a mantenere il controllo totale di quello che faccio. Perciò scrivo, perché mentre lo faccio sono sceneggiatore, regista, compositore, tutto. Il fumetto è una buona via di mezzo: basta che mi faccia capire dal disegnatore e il risultato finale ne uscirà molto simile a come l’ho immaginato.
Il panorama letterario horror in Italia resta di nicchia. Perché?
Perché non abbiamo una tradizione radicata. In edicola trovi collane dedicate a tutti i generi: Urania, Il Giallo Mondadori, Harmony… ma non l’horror. Gli italiani sono un popolo tradizionale, soprattutto quando si tratta di leggere: succede anche nel fumetto. Nei primi anni Novanta è esplosa la moda e a trascinare il movimento c’è stato Dylan Dog, ma non avendo una struttura alla base, quando la moda è passata, non è rimasto quasi nulla. Addirittura anche il cinema horror nostrano è morto, e pensare che lo abbiamo venduto in tutto il mondo facendo scuola.
Come pensi che venga visto il genere?
Nell’immaginario collettivo italiano, se dici horror tutti pensano a una carneficina continuata, una sorta di pretesto per mostrare soltanto sangue, un po’ come succede nel porno con il sesso. Invece l’horror è l’insieme di mille sottogeneri diversi, ricco di sfumature, e può essere raccontato sia con brutalità che con strisciante delicatezza. In Italia siamo pieni di pregiudizi e quelli sull’horror purtroppo non sarebbero nemmeno i più importanti da infrangere.
Come potrebbe migliorare l’editoria italiana per gli autori indipendenti?
Gli autori indipendenti dovrebbero cominciare coltivando il loro piccolo orto, per poi espandersi. La maggior parte è convinta di essere il migliore, ma dopo qualche mese si arrendono davanti all’evidenza che nessuno li considera. Succede anche con le piccole case editrici che non riescono a fornire un supporto concreto. L’errore, secondo me, è affidarsi quasi totalmente a internet, un mare troppo ampio dove la qualità si confonde con la mediocrità. Non ho trovato una soluzione, ma potrebbe essere girare a fiere, festival, o feste di paese: si allestisce uno stand e si parla con la gente, di persona. Ci si fa conoscere e, se il proprio lavoro merita, si guadagna un lettore alla volta. Ma è faticoso, significa compiere molti sacrifici. Anche a me piacerebbe restare a casa a scrivere e vivere come Stephen King, ma se non sono io il primo a credere in ciò che faccio, come posso pretendere che qualcuno lo faccia al posto mio?
In cosa è diversa la scrittura del fumetto da quella del romanzo?
Vuol dire scrivere soprattutto per immagini. Al lettore arriva soltanto ciò che decidi di mettere nei dialoghi e nelle didascalie, il resto lo affidi al disegnatore. Spesso le cose più importanti sono quelle che non vengono dette.
Cos’ha di innovativo The Noise?
Nulla, è un horror molto tradizionale. Ma, per assurdo, risulta una proposta editoriale unica nel panorama italiano, proprio perché nessuno concepisce il genere a questa maniera. In Italia l’horror che viene accettato è quello più gotico, alla Edgar Allan Poe. C’è anche un frangente più estremo a cui interessa solo leggere di sesso e violenza spinti al massimo, o il modello offerto da Dylan Dog. Diciamo che 'The Noise' cerca di proporre un modello di narrazione più internazionale.
Leggendo The Noise ci sono delle vignette estremamente crude, e anche se si tratta di spillati di poche pagine sono talmente intensi che alla fine si chiude l’albo con la nausea. Perché tra tutti i generi proprio l’horror? Ti sei mai cimentato in altro?
Scrivo principalmente horror o generi che ci ruotano attorno. Spesso mi dedico a storie più toccanti, poi ho scritto anche heroic fantasy e sword&sorcery: l’ho anche fatto convogliare nella mia serie a fumetti 'Warbringer' e in un fumetto scritto per un altro editore. Se si tratta di lavori su commissione, affronto anche altri generi, ma se devo dare vita a un progetto mio faccio quello che mi pare. Pure nell’horror cerco di variare il più possibile, anche se come ogni autore finirò con il ripetermi.
A che età hai cominciato ad avvicinarti a questo genere?
Penso di avere avuto otto o nove anni con fumetti, film e romanzi. Non sono passato per la letteratura per ragazzi tipo 'Piccoli Brividi', ho puntato direttamente ai grandi registi e i grandi scrittori. Sono stato fortunato, perché era un periodo storico migliore per approcciarsi al genere.
C’è un autore che ti ha influenzato particolarmente?
Ce ne sono tanti, ma se ne devo indicarne uno soltanto direi Richard Laymon. Era uno scrittore puro, prolifico, non se la menava facendo l’autore impegnato. Trovava sempre il modo più diretto e coinvolgente di narrare la sua storia. È un peccato che il cinema non lo abbia mai preso in considerazione. Nel mio piccolo spero di avere fatto la mia parte: a forza di parlarne alle presentazioni o alle fiere in giro per l’Italia, un po’ avrò contribuito a farlo riscoprire.
Chi guardi con ammirazione?
Non amo chi se la tira, chi è interessato a costruirsi attorno un personaggio. Ci sono autori validissimi che purtroppo non ne sono interessati; al contrario, ci sono tanti mediocri che però si impegnano un sacco a farsi notare. Ammiro chi ci mette impegno e passione. E testardaggine.
Qual è stata la critica che ti ha fatto crescere di più?
Anni fa mi sono rivolto a professionisti per un parere. Mi hanno giustamente massacrato. Nell’immediato ne uscii demoralizzato, ma poco alla volta trovai la forza di andare avanti. Penso sia in momenti simili che si capisce quanta passione c’è alla base del proprio lavoro: se non ti fai affossare, puoi uscirne più forte di prima. Consiglio di restare umili e ascoltare le critiche, se provengono dalle persone giuste sono fondamentali.
Qual è il fatto più creepy che ti sia mai capitato?
Per fortuna nulla di grave e nulla di reale. Però ricordo ancora con un brivido quando ero in villeggiatura e in montagna e guardavamo film horror. Agli altri poi bastava mettersi a letto, a me toccava camminare per una lunga strada che costeggiava il bosco. Di notte, ovviamente. Ero un bambino, non ti dico quanto fossi suggestionato. Però era bello, dannazione! Un’altra volta, ma già in età adulta, hanno mi suonato alla porta e ho trovato due persone mascherate. Erano amici durante il Carnevale, ma ti assicuro che farsi avvicinare da due persone di cui non riesci a intuire con precisione l’identità è una strana sensazione. È stato davvero grottesco parlare loro senza ricevere risposta, mentre continuavano a guardarmi con le loro facce di gomma.
Ringraziandoti per la disponibilità chiudo chiedendoti: di cos’hai paura?
Da bambino soffrivo molto di vertigini, ma con gli anni è andata meglio. In questo sono molto banale, ma ho paura quando viene minata la mia quotidianità – come in questo periodo –. E ho paura che venga fatto del male alle persone che amo. Sono cose molto concrete. Almeno fino a quando non vedrò un morto vivente con i miei occhi, allora potrei cambiare il mio metro di valutazione!
Grazie per la chiacchierata e Horror Rules!
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