Dopo avervi illustrato alcuni segreti e curiosità riguardanti la lavorazione di The Ring Two, ci occuperemo, in questa seconda parte del nostro speciale, della biografia e filmografia del regista.
Hideo Nakata nasce il 19 luglio 1961 a Okayama, in Giappone. La febbre del cinema lo assale, come è successo a molti di noi, durante l’adolescenza: il futuro filmaker passa gli anni delle scuole superiori e dell’università a guardarsi più o meno un film al giorno, evolvendo da un iniziale amore per certa nouvelle vague a registi americani quali Clint Eastwood o Sam Peckinpah.
Inevitabilmente questo fortissimo amore per la celluloide si trasforma in professione, e il nostro lavora per ben sette anni alla Nikkatsu in qualità di assistente alla regia. L’horror lo interessa e diverte, ma non sembra essere, in quel periodo, il punto focale della sua visione. Dopo un documentario su Joseph Losey e un film acerbo ma che già mostra un ottimo approccio all’inquietudine (Ghost Actress, sulla difficile lavorazione di un film, con incidenti alla troupe e morte di un’attrice), Nakata ha la sua grande occasione nel vedersi proporre la trasposizione cinematografica di Ring, romanzo di Suzuki Koji che aveva già riscosso un buon successo commerciale (500.000 copie vendute).
Il filmaker, insieme allo sceneggiatore Takahshi Hiroshi, opera alcuni sostanziali cambiamenti all’opera cartacea (muta il gender del protagonista in nome di una sua particolare predilezione per i personaggi femminili, sfrutta appieno la pre-esistente urban legend del video maledetto…) e mette in scena una narrazione imperniata da un lato sulla sottrazione e dall’altro su un flusso apparentemente calmo ma pronto a esplodere in momenti di rara tensione ed efficacia (basti confrontare il video maledetto della versione originale con quello del remake, o la stessa scena dell’apparizione dal televisore…).
Il lungometraggio riscuote un incredibile successo in patria e da lì la carriera del regista procede in vertiginosa ascesa: un sequel approntato in breve tempo (formalmente meno studiato e preciso rispetto al primo film, chiaramente meno originale, ma ricco di visioni ancora più disturbanti), poi due film di buon successo ma meno interessanti come Chaos e Sleeping Bride e infine la maturità stilistica con quel Dark Water che conferma alcune sue fissazioni e scelte autoriali.
L’acqua (con tutti i suoi possibili carichi simbolici), la donna come protagonista assoluta, il rapporto parentale, il senso di dilatazione e attesa portato quasi all’estremo, l’impossibilità di dimenticare o perdonare.
Hideo Nakata chiude simbolicamente il cerchio della sua prima fase di carriera con Last Scene, nuova riflessione sul cinema, sul filmare e sul vedere, con la figura di questo attore arrogante e anti-patico la cui carriera è in un momento di crisi. Il regista mostra ormai un mestiere solidissimo, piena padronanza degli ambienti e del ritmo (lento), rarefazione degli istanti di orrore e tensione che proprio per questo diventano ancora più efficaci.
Questo autore giunge così negli Stati Uniti con un ricco bagaglio professionale e un potenziale espressivo che, se non verrà eccessivamente minato dalle richieste della produzione, saprà far fruttare al meglio i mezzi offerti dai set americani. Ottimo anche il palmares internazionale di Nakata: vittorie a Brussels, Sitges e al Fant’Asia, ovvero alcuni fra i festival più importanti del settore.
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