Playdead è uno sviluppatore indipendente danese fondato nel 2006 da Arnt Jensen e Dino Christian Patti e nei dieci anni della sua esistenza ha pubblicato solo due videogiochi, Limbo (2010) e Inside (2016).
Quest’ultimo è uscito questa estate su varie piattaforme (Xbox One, PC, Playstation 4) e si è subito confermato il degno erede di Limbo, tanto che si sarebbe potuto intitolare senza problemi Limbo 2.
Inside è un platformer 2.5D, dove con 2.5D si intende che mentre l’interno mondo di gioco è ricreato in 3D, il gameplay è limitato a un solo piano. Il nostro avatar è un ragazzino con una maglietta rossa che, partendo da un bosco, deve attraversare una serie di aree (fattorie, città, laboratori e così via) fino a raggiungere l’obiettivo del gioco, un mostro che non è da sconfiggere ma da aiutare a scappare.
Troviamo numerosi ostacoli a bloccarci il cammino. Fin da subito ci sono uomini e cani che ci danno caccia, e Inside non ci risparmia scene strazianti di cani che sbranano il ragazzino. Si capisce presto che il mondo di Inside è un brutto posto dove si può morire facilmente.
Per evitare gli ostacoli si devono risolvere dei puzzle e avere una buona tempistica nei movimenti (corsa e salto) dell’avatar. I puzzle sono sempre interessanti e vengono riproposti con variazioni che li rendono non scontati. Non sempre si capisce subito come risolverli e si deve quindi procedere per successivi errori e cioè attraverso la morte del protagonista.
L’ambientazione è tetra e monocromatica. In una distopia dove una classe di “lavoratori-zombie” viene controllata mentalmente da dei padroni, molti puzzle si risolvono appunto usando questi zombie nel modo opportuno. Ma Inside non è solo una metafora della lotta di classe. Le implicazioni di molte cose che si trovano nel gioco, e che non vi sto ad anticipare, portano direttamente a mettere in discussione il concetto di “controllo”: chi controlla l’avatar? Il giocatore? E chi controlla il giocatore? Il creatore del videogioco? Siamo veramente più liberi degli zombie quando giochiamo a Inside?
C’è il colpo di scena nel quale (SPOILER!) si diventa il mostro finale, e si inizia così una sezione del gioco dove l’avatar diventa un blob fatto di carne umana che cerca di scappare dal laboratorio. Ma è una vera fuga o è anche questo tutto già programmato? Il gioco lascia indizi ma non fornisce alcuna risposta, e le possibili interpretazioni sono numerose. Resta sempre in Inside un’atmosfera di mistero, perché in realtà non ci viene mai detto cosa stia succedendo realmente, chi sia il ragazzino o le persone che lo cercano.
Come detto prima, Inside è il degno erede di Limbo, gioco anch’esso platformer 2D dove si muoveva un ragazzino attraverso una serie di ambienti mortali con puzzle da risolvere. Inside presenta numerosi miglioramenti rispetto a Limbo. Il mondo di gioco è più realistico e meno astratto. I puzzle e i pericoli sono più inseriti nel contesto e hanno quindi più senso, contrariamente a Limbo, dove il mondo di gioco era più simbolico e i pericoli erano gratuiti e i puzzle arbitrati.
Il motore grafico usato per Inside è l’Unity, con un filtro anti-aliasing sviluppato dalla Playdead stessa. L’estetica è quasi-monocromatica e minimalista, con un ottimo uso delle luci e delle ombre per mettere in risalto il level design. Non c’è alcun HUD che si intromette tra il giocatore e il gioco. Le animazioni sono fluide rendendo scorrevole l’esperienza di gioco. Tutto questo porta a una semplicità dell’esperienza di gioco che però essendo ben studiata non diventa mai banalità.
Pochi sono i punti deboli di questo titolo. Tra questi la scarsa lunghezza del gioco, che si può finire in 4-5 ore. Il finale non spiega niente e lascia il giocatore arenato (letteralmente) senza alcuna conclusione soddisfacente.
Inside è un videogioco sicuramente consigliato, sia per l’atmosfera che per il gameplay.
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