Dopo una pausa dall’horror, nel 1969 Mario Bava torna alla regia di questo thriller gotico, anche conosciuto con il titolo Un’accetta per la luna di miele.
Trama: John Arrington, colpito da raptus di follia, massacra alcune modelle del suo atelier, non c’è però nessuna prova che possa incriminarlo. Sarà un’astuta agente di polizia a mettere fine alla furia omicida di John e a farlo finire in manette.
Perché vederlo: Bava con Il rosso segno della follia riprende le orme del precedente Sei donne per l’assassino, rifacendosi in parte anche a Operazione paura. Questa volta però rinuncia della violenza più spinta a favore del black humor, l’intento è infatti quello di fare il verso allo studio psicologico della figura del maniaco omicida, tanto in voga nel cinema di quel periodo. È quindi evidente il legame con Psycho di Hitchcock, l’omaggio di Bava non si limita solo l’approccio psicanalitico, ma continua in una serie di citazioni sparse per tutto il film. Il regista romano cita spesso anche se stesso, molti sono i rimandi alle sue opere precedenti, quello più evidente di tutti è presente nella scena in cui John guarda in televisione I wurdalak, episodio di I tre volti della paura.
Bava ribalta la logica del thriller, svelando l’identità dell’assassino fin dall’inizio: John è un uomo comune, con una vita comune ma che in realtà nasconde a tutti, e forse anche a se stesso, un terribile segreto che lo spinge a compiere gli efferati omicidi. Non resta quindi più nessun mistero da svelare, se non quello che riguarda il passato di John, inizia così il lungo viaggio attraverso la folle mente dell’uomo in cui realtà e immaginazione si fondono e si confondono.
La storia è raccontata attraverso lo sguardo dell’assassino, l’identificazione con il protagonista è esasperata, in questo modo, pur essendo John un personaggio estremamente negativo, lo spettatore non può che empatizzare con lui, tanto più che quello che accade nel corso della narrazione è ignoto a noi quanto a lui. John è un uomo disturbato che ama le donne solo quando hanno l’innocua forma di manichini, la sua alienazione lo spinge poi a indossare abiti da sposa e ad accompagnare i suoi massacri con una rasserenate musica di carillon (è evidente che il capolavoro di Dario Argento, Profondo Rosso, ha qualche debito con Il rosso segno della follia).
Bava dissemina false piste per tutta la durata del film e rappresenta l’alta borghesia, cui John appartiene, ancora una volta come avida e vigliacca, senza nessun freno morale, ma non può rinunciare a inserire in questo racconto “quotidiano” quello che gli è più caro: l’insondabile, l’irrazionale.
Memorabile la fotografia, dai colori vivaci, quasi psichedelici, curata dallo stesso Bava, così come la colonna sonora firmata da Sante Maria Romitelli. La regia è quella di un vero maestro, Bava sorprende con inquadrature sperimentali: cambi di fuoco repentini, giochi di luce per evidenziare il passaggio da passato a presente durante i monologhi di John, prospettive distorte.
Il rosso segno della follia non è certo il film più riuscito di Bava, ma è tra i più sentiti, curati e personali del regista, e come sempre innovativo.
Curiosità: Il film fu girato in Spagna, nella villa di Francisco Franco, il produttore fece però inserire alcuni esterni parigini, per creare un’ambientazione francese. Nella versione italiana invece, per giustificare i nomi anglofoni, il racconto si svolge a Londra. A proposito della produzione spagnola Bava dice: “Ho girato in Spagna, nella villa di Franco, con i gendarmi che non volevano che sporcassi di sangue le scalinate, e quei tecnici spagnoli che non mi fanno impazzire, non ci tornerò più, lo giuro.”
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