Istinto, abilità, coraggio e, soprattutto speranza: sono questi gli ingredienti fondamentali per sopravvivere in difficili situazioni dove l’ordine naturale è minato da eventi catastrofici su scala mondiale, provocati da virus mortali capaci di ridurre ai minimi termini la presenza umana sul pianeta. È allora fondamentale aggrapparsi alla vita con ogni mezzo possibile, così come fanno i protagonisti di Extinction – Sopravvissuti, film horror di stampo iberico, diretto da Miguel Ángel Vivas, dal 23 settembre disponibile in edizione DVD, distribuito dalla Universal Pictures Italia. La pellicola, sceneggiata da Alberto Marini e interpretata, tra gli altri, dalla stella di Lost, Matthew Fox, è la trasposizione cinematografica del racconto horror Y pese a todo ed è ambientata ad Harmony, un innevato paesino statunitense, dove hanno trovato riparo Patrick, la piccola Lu e Jack. Il terzetto, apparentemente al sicuro, grazie alle ostili condizioni atmosferiche che sembrano tenere lontani gli infetti, saranno presto costretti a fare di nuovo i conti con l’orrore, che lo stesso regista ci mostra in uno struggente ed emozionante incipit.
In occasione dell’uscita in Home Video di Extinction – Sopravvissuti, compiamo un breve excursus nel cinema di genere, in particolare horror e fantascienza, alla ricerca delle pellicole più indicative che hanno saputo raccontare delle epidemie, costruendo un immaginario apocalittico che ha trovato terreno fertile nel cuore del pubblico, indebolito delle proprie sicurezze in una società dove virus e malattie hanno provocato dolore e morte.
Partiamo da un grande classico come La notte dei morti viventi, dove l’epidemia è provocata dall’inspiegabile ritorno in vita dei defunti, ghiotti di carne umana.
Il film, uscito nel 1968, divenne in breve tempo un cult e fece da vero e proprio apripista agli zombie movie, nonostante non fu la prima pellicola a trattare il ritorno in vita dei non morti. Il canovaccio ideato dal regista George A. Romero ha subito nel corso degli anni numerosi saccheggi pur mantenendo un fascino immutato, grazie anche alla non troppo velata critica della società americana dell’epoca, dimostrando come anche il genere horror, spesso relegato a cinema di serie B, potesse imporsi come specchio della condizione umana, tra arroganza, debolezza e paura.
In fondo sono gli stessi umani a decidere il proprio destino e in un eccesso di libero arbitrio si può incorrere in tragici errori di valutazione, come in 28 giorni dopo, film diretto nel 2002 dal regista Premio Oscar, Danny Boyle.
Nella fase iniziale del film, il cineasta britannico ci mostra le prime fasi dell’epidemia, provocata da un gruppo di animalisti responsabili della liberazione di alcune scimmie alle quali era stato somministrato un virus simile alla rabbia. I risultati del loro gesto sono presto visibili, quando Boyle ci mostra, tra sapienti inquadrature, una Londra completamente deserta in un contesto surreale ma molto affascinante.
È ancora l’agire incauto dell’uomo a provocare un’epidemia su larga scala in Resident Evil, film diretto da Paul W.S. Anderson nel 2004 e ispirato all’omonima serie di videogiochi prodotta dalla Capcom.
Ambientato nell’immaginaria Raccoon City, Resident Evil racconta con abilità e successo, testimoniato dalla longevità della saga non ancora arrivata alla conclusione, un’apocalisse provocata dalle sperimentazioni di un’importante casa farmaceutica impegnata nella ricerca – illegale – di armi batteriologiche. Da uno di questi esperimenti nasce il T-Virus, ottenuto con una combinazione del DNA delle sanguisughe. Seppur confinato in uno scenario cinematografico, e quindi di finzione, il T-Virus spaventa perché frutto dell’avidità e della follia umana, due caratteristiche fin troppo “reali”. Non ci stupiamo, allora, nell’ assistere alle oscure brame di potere di grosse aziende capaci di dialogare con i governi e incidere, anche in maniera piuttosto ambigua, sui destini di uno stato e del mondo intero.
I virus, infatti, possono propagarsi velocemente e con esiti drammatici, come ci insegna la coppia di registi spagnoli Jaume Balagueró e Paco Plaza, autori di REC, brillante mockumentary horror, sottogenere del cinema dell’orrore reso celebre da The Blair Witch Project, dove lo sviluppo del virus è condito con un’interessante chiave di lettura religiosa grazie agli espedienti del found footage e un finale aperto dove molto è svelato allo spettatore, compresi i non propri ortodossi metodi di un medico del Vaticano che, per curare un presunto caso di possessione demoniaca, creò un vaccino instabile e altamente pericoloso.
Gli eventi del primo film, e del sequel REC 2, sono narrati in prima persona dagli angusti spazi di un tetro palazzo nel centro di Barcellona, mentre nel terzo film, e soprattutto nel quarto, vengono mostrati gli effetti incontrollabili del virus, sfuggito alle misure di quarantena imposte dal governo spagnolo.
Abbiamo parlato esclusivamente di virus ed epidemie che dimostrano come il pericolo arrivi dai non morti, eppure non sempre è così, basti ricordare The Road, che con le pellicole già analizzate non sembra avere particolari legami, se non fosse per quel maledetto e disperato paesaggio post apocalittico di una terra ormai ridotta a un gigantesco e freddo deserto. Qui il pericolo arriva dagli stessi umani che, in condizioni disperate, danno sfogo ai più bassi e violenti istinti, fino al cannibalismo. Il film racconta la commovente lotta per la sopravvivenza di un padre con il suo bambino, nel malinconico scenario di un mondo alla deriva, come in Io sono leggenda, pellicola diretta da Francis Lawrence nel 2007 e terzo adattamento cinematografico del romanzo omonimo di Richard Mateson. Il protagonista del film – Will Smith – è un virologo militare, unico superstite di una gigantesca epidemia provocata dal virus del morbillo geneticamente modificato e utilizzato per curare il cancro. Ed è qui che torniamo a credere negli esseri umani, grazie all’abnegazione di un uomo solo al mondo alla ricerca di una cura che forse non servirà mai a nessuno.
Un’altra evidente e riconosciuta caratteristica del cinema dell’orrore è la capacità di adattamento e rinnovamento, sempre aperto a possibili contaminazioni, anche con generi apparentemente agli antipodi, come la commedia. Non stupisce, allora, un prodotto come L’alba dei morti dementi, brillante horror comedy inglese creata da Simon Pegg, qui nei panni di Shaun, un modesto trentenne ritrovatosi, suo malgrado, a guidare un gruppo di superstiti in fuga da un’orda di non morti.
Un eroe per caso, come Columbus, protagonista di Benvenuti a Zombieland, altro mirabile esempio di commedia a tinte horror. In questo film, dagli scenari apocalittici riempiti con irresistibili gag, l’epidemia è stata provocata dal morbo della mucca pazza, così come fu ribattezzata una malattia degenerativa che colpiva i bovini e che nei primi anni del duemila provocò una vera psicosi collettiva. Forse anche esagerata.
La passione cinematografica per virus, epidemie e zombie, infine, ha trovato riscontro anche sul piccolo schermo, grazie alla Serie TV The Walking Dead, ideata dal regista Frank Darabont e ispirata agli omonimi fumetti di Robert Kirkman, produttore esecutivo del programma. Giunta ormai alla sesta stagione, senza mai chiarire le origini del contagio, The Walking Dead racconta la quotidiana lotta per la sopravvivenza di un gruppo di persone guidate da un ex sceriffo della Georgia.
Narrare di virus “fantasiosi” aiuta lo spettatore, cullato e al sicuro all’interno di rassicuranti sale cinematografiche o nel focolare domestico, eppure gli eventi storici del passato testimoniano come i rischi di un’epidemia, di qualsiasi tipo, siano concreti e minacciati dagli uomini stessi, con il rischio di attacchi batteriologici, e non solo, sempre vivi. Allora, forse, saranno gli zombie a dover temere gli umani e la loro autoproclamazione a esseri onnipotenti.
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