Che bello, oggi ci sono tutti, ma proprio tutti. I miei migliori amici Elisa, Matteo, Samuele. Quelli della mia classe e persino alcuni della III E. Ci sono tutti i parenti dalla parte di papà, zia Gisella, zio Arnaldo e anche Benedetta. C’è mio fratello, che se n’era andato di casa e non si faceva sentire più, e adesso eccolo qui, avvinghiato a questa brunetta minuscola che si mangia le unghie. Mi sono mancati tutti da morire. Salto da una parte all’altra come un’invasata, a baciare tutti, sulle guance, in testa, sulle labbra. La stronza di mia madre è al centro della festa come l’ape regina, stringendo mani, distribuendo baci sulle guance e abbracci lunghi.
Invece, nonostante il mio entusiasmo, nessuno si sofferma su di me per più di un paio di secondi. Mi guardano a malapena, poi passano avanti.
Mi ci vuole un po’ per capire che l’attenzione di tutti gravita verso un oggetto strano. È un baule scuro, lucido, la superficie liscia riflette la luce delle candele accese nella sala. Il coperchio è sollevato, ed è rivestito di un raso color rosa pesca, che mi ricorda la camicia della Monna-Lee. Mio padre si avvicina al baule e zia Gisella lo sorregge dai fianchi come se fosse un bimbo che ancora non cammina bene. Dà una sbirciata dentro e poi chiude gli occhi e si lascia andare come un sacco di patate, tanto che zia Gisella non ce la fa a sostenerlo da sola e quindi arriva zio Arnaldo.
A questo punto voglio avvicinarmi anch’io a quella specie di cofanetto gigante, con le gambe che tremano, a piccoli passi, anche se potrei fiondarmi lì con un salto, con una spaccata in aria. Dentro c’è una tizia, ha metà volto coperto dai capelli. I capelli sono finti. Di questo ne sono certa, perché i capelli veri della tizia erano morbidi e ondulati, non grossi e stopposi come questi, che sembrano i capelli della Barbie.
Da qualche parte si è accesa una luce.
È la televisione della cucina, a casa mia. Devo essermi addormentata. C’è il telegiornale e stanno mostrando una mia foto. Me l’ha scattata papà a tradimento, a luglio, quando ero già abbronzata. Sono proprio io, perché dicono il mio nome e cognome, e la mia età. Dicono pure cadavere semi carbonizzato, rinvenuto dopo tre settimane. Dicono ignoti, overdose, occultamento di cadavere.
Mi si apre una scena in mente. È notte fonda e gli altri sono andati via, loro non sono nemmeno di questa città. La pioggia scende furiosa e ha spento la brace. Io mi guardo una mano sola con un occhio solo, perché l’altra mano e l’altro occhio sono andati. Ho le unghie lunghe, curate, color grigio topo.
Puoi restare qui oppure andare. Scegli tu.
Dal soffitto scende una voce calda e amorevole. Sembra di essere al supermercato, quando gli altoparlanti annunciano che si è perso qualcuno, solo che di altoparlanti in casa mia non ce ne sono. Mi viene da piangere e non so perché. In due secondi ho capito tutto. Quanto sono disperati adesso i miei, quanto mi ama mia madre, e quanto siamo soli tutti quanti prima di ritornare alla voce. La finestra della cucina si apre e io sono pronta a volare. Mi sono spuntate anche le ali. Sono fatte di piume scintillanti, una per caviglia.
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