Cammino per casa con una mano sulla bocca. Mi viene da vomitare. Per davvero, non come quando prendo in giro mia madre.
L’ultima volta è stato pochi giorni fa, quando è ritornata a casa e sembrava tutta su di giri, quasi ubriaca. Guarda qui Carola cosa ti ho comprato. Da una busta di plastica ha estratto una camicetta rosa salmone firmata Monna-Lee, una di quelle che si annodano sul davanti come un fiocco di seconda elementare. Una di quelle cose che, se hai quindici anni e sei sana di mente, non ti metterai nemmeno da morta. Forse a quel punto avrei dovuto abbracciarla e pentirmi di essere sempre stata una pessima figlia, e anche lei magari avrebbe ammesso di non meritare il Nobel per la maternità, e quindi ci saremmo abbracciate piangendo. Invece ho preso quella cosa e mi ci sono coperta la bocca e ho fatto finta di vomitarci sopra.
Quello deve essere stato l’ultimo giorno che noi due ci siamo parlate. Oppure è stato il giorno dopo quel giorno, non ricordo bene.
Poi ho fatto una cosa grave e mia madre non mi ha più rivolto la parola. Non solo, è riuscita a fare il lavaggio del cervello a mio padre, e anche a mio fratello. Morale della favola, qui dentro nessuno mi parla più. Anzi, nessuno parla più con nessuno.
Vado in cucina. Mi piace molto stare lì. E non per cucinare o per altro.
Dietro il lavello c’è una finestra lunga, rettangolare, all’americana. Mi aggrappo sul bordo del lavabo, mi sollevo facendo leva sulle mani per guardare meglio. Il figlio dei vicini di casa sta camminando lì fuori, a testa bassa. Si capisce che sta evitando con cura di guardare da questa parte, verso il vetro, verso di me. È solo un ragazzino, non avrà più di quattordici anni. Alla fine della strada c’è un altro che è la sua copia conforme, stessi pantaloni larghi e felpa slabbrata. I due si danno il cinque e poi si allontanano.
Oggi le nuvole sono grigie e lunghe, sembrano assorbenti giganti.
Spero che venga giù un acquazzone. Un acquazzone può spegnere un fuoco. Ne accendono spesso di fuochi, lì sulle montagne che si vedono all’orizzonte. Dalla finestra l’orizzonte sembra un quadro ad acquarelli. Per dipingere un fuoco sulle montagne basterebbe fare un punto rosso con il pennello.
Lascio andare le braccia, torno con i piedi per terra. Il mio corpo è sottile come un granello di cenere. Questo davvero mi rallegra: il mondo intero ce l’ha con me, ma per lo meno io continuo a fare progressi. Adesso sono così leggera che forse un giorno potrei provare a volare, ma senza allontanarmi troppo.
Le mie mani hanno lasciato impronte scure sull’inox del lavello. Ultimamente, tutto quello che tocco diventa nero.
Dal soggiorno arrivano i rumori di mio padre. Sono i primi della giornata.
A volte li fa di notte, ma preferisce il giorno, quando mamma non è in casa. Come se volesse urlare ma non avesse abbastanza fiato in gola. Come se qualcuno gli ficcasse la testa in una vasca piena d’acqua e poi mollasse la presa di colpo.
Ho paura che abbia una brutta influenza. Da diversi giorni sembra abbattuto, vive sul divano e non fa altro che guardare la televisione, accesa o spenta che sia.
D’altronde, si vede che a quella stronza di mamma non può fregargliene di meno. La mattina si infila il costume di super-imperatrice-aziendale e gira i tacchi senza guardare in faccia nessuno.
Stamattina – o forse era ieri mattina – gli ha detto sei un senza palle. Lui non ha fatto una piega. Forse non l’ha nemmeno sentita. In televisione c’era un uomo che affettava le arance e poi le disponeva su un vassoio dove giaceva un volatile morto in attesa di cottura. Rivoltante.
Tu non capisci e non hai mai capito niente, ha continuato la stronza, con uno sguardo che lo avrebbe fulminato se lui l’avesse guardata, povero papà. Tu non sei l’unico a stare male.
Mia madre è sempre stata sana come un pesce. Solida come una colonna. Fatta eccezione per quella intossicazione da frutti di mare a Fuerte Ventura, tanti anni fa. Adesso insinua di star male, così, giusto per attirare l’attenzione su di sé.
Papà non se l’è bevuta. Non si è mosso quando il sedere quadrato di lei è scomparso dietro la porta. A quel punto mi sono avvicinata per abbracciarlo, ma non l’ho nemmeno toccato che lui mi ha scacciato con una mano, come se fossi una zanzara.
Proprio brava, quella stronza. Ha aizzato tutti contro di me. Neppure i miei amici mi cercano più. Va bene, questo è anche colpa mia, visto che sono stata io a perdere il cellulare. Deve essermi caduto da qualche parte quella sera che sono uscita di nascosto, quando mi tiravano per le maniche della giacca perché ce ne dovevamo andare. Alzati, non fare la stupida.
Con il sottofondo dei rumori di mio padre, vado a controllare i miei progressi. Lo faccio quasi tutti i giorni.
Mi infilo nello spazio tra il frigorifero e la parete, faccia contro le mattonelle fredde color cioccolato. Sono pochi centimetri, quanto la lunghezza del mio piede taglia 36, ma riesco a incastrarmi perfettamente. Settimane fa non avrei mai sperato in un simile risultato. Un giorno potrei diventare sottile come un’ombra, e passare sotto le porte chiuse.
Vado in salone e mi stendo sul pavimento. Il mio corpo aderisce al parquet come una ventosa. Le mie ossa diventano venature del legno. Mi piace pure stendermi sul tappeto, con il pelo soffice che mi solletica lo stomaco.
Questo Paese fa schifo, brucerete tutti all’inferno.
Sulle scale che portano al piano di sopra c’è una figura minuta, scura. Scuro il velo che le copre la testa, scura la fronte. Lo sguardo è tagliente come quello di un gatto. Non l’avevo vista. Se l’avessi vista l’avrei evitata, oggi non ho troppa voglia di parlare con lei. È la donna che ha fatto – o dice di aver fatto – il tappeto che mia madre ha comprato e messo in salone. Si chiama Soraya.
Non è che mi stia proprio simpatica. Prima di tutto, ha il vizio di camminare scalza, e Dio sa cosa ha pestato prima di entrare qui. Quando protesto che dovrebbe mettersi le scarpe, lei ribatte che tanto questa casa è già un porcile, con la lanuggine che si accumula sotto i letti e nei corridoi, e la cucina piena di spazzatura e piatti non lavati.
Inoltre, Soraya piange spesso. A volte è triste per via di suo marito, perché è troppo vecchio per lei e puzza, a volte piange senza dire niente. Spesso mi insulta, dicendo che sono una ragazza viziata, e che brucerò anch’io all’inferno come tutti gli altri.
L’unica cosa che non le fa schifo è il tappeto. Ci si accomoda sopra per ore. Se provi a dirle di non entrare più in casa, ti risponde che il tappeto è stata l’ultima cosa che ha fatto quando era vergine e lei viene a vederlo quando vuole.
Vergine. La prima volta che le ho sentito dire questa parola mi sono sentita male. Lo so, ho la coda di paglia. Non mi ricordo se lo sono ancora oppure no.
Mi sa che avevo una mezza idea di non esserlo più, quella sera che sono uscita di nascosto, e faceva freddo sulle montagne, e ancora più freddo lungo il fiume. Li avevo conosciuti tutti due o tre giorni prima, erano amici nuovi che mi chiamavano Carola, non puffina o Ca-rollina. E c’era anche lui, che era più vecchio di me ma forse non l’aveva capito.
Pazienza, Soraya, le dico, riemergendo da quei ricordi sfumati, mal comune è mezzo gaudio. Adesso ti saluto ché devo andare a scuola.
Mi sono appena ricordata che oggi c’è il compito di storia. Sulla Persia, mi sembra. Forse più che un compito di storia è un compito di geografia. Sono le nove meno un quarto; se vado di corsa riesco ad arrivare per le nove. Se ho la fortuna di beccare un tram, anche le nove meno cinque.
Ma dove vai, che ti manca metà faccia. Soraya mi guarda di sbieco, gli angoli della bocca piegati all’ingiù dal disgusto, come tutte le volte che mi guarda. Devo trovare il modo di non farla entrare più.
Fuori casa l’aria è tutta gialla, come attorno a un incendio. Ho la brutta sensazione che, se esco da qui, poi non riuscirò più a tornare. Mi aggrappo alla maniglia della porta, perché ho paura che il vento mi spazzi via. Un uomo cammina svelto con la sigaretta in bocca. Una donna con pelliccia e cappellone di pelliccia spinge un passeggino doppio. Una ragazza pedala velocemente e i capelli rossi le si gonfiano nel vento, come una fiamma.
Una volta anch’io uscivo di casa e andavo in giro. Era una cosa da niente. Adesso mi sembra una cosa difficilissima. Forse di questo potrei parlarne con mio padre, penso che lui capirebbe. Di certo non voglio dirlo a mia madre: direbbe che sono una senza palle.
Rientro in casa, chiudo la porta. Soraya se n’è andata.
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