Un novello Gulliver. Attorniato da lillipuziani da incubo.

Sfarfallavano. Simili alle immagini su un televisore mal sintonizzato che cercavano di emergere, attori ridotti a comparse da un tubo catodico malfunzionante.

Era come se quei satiri malati non fossero esattamente lì, immobili a fissarlo, le fronti nascoste da ciocche di capelli stoppose intrecciate con rametti, foglie, bacche, pigne.

Franco Butieri era cosciente, ma paralizzato.

Cercò di trasmettere un impulso alle mani. Un indice si mosse appena. Da quella lieve flessione di muscoli parve nascere nuova energia. Riuscì a tirarsi seduto e a poggiare la schiena contro il tronco di un faggio.

Oh, sarebbe morto, non c'erano dubbi. Era un pezzo del suo cervello quella cosa morbida che indugiava sul fondo della lingua?

Il cervello. Sì. Suo genero era medico e un giorno gli aveva detto che gravi danni all'encefalo, causati da tumori o traumi, potevano scatenare allucinazioni, stati di follia, perversioni mai manifestate in precedenza. Qualcuno sosteneva addirittura che potessero attivare parti della materia cerebrale non utilizzate, dando vita a strani fenomeni.

Forse per questo riusciva a vedere ciò che vedeva? Perché quella maledetta pallottola aveva attivato qualche facoltà nascosta nella sua testa?

Il proiettile. Lo immaginò incuneato nella materia grigia, una mina pronta a detonare.

I suoi neuroni danneggiati gli mostravano degli gnefri, il piccolo popolo dell'Umbria.

Bel modo di andarsene, sogghignò, sputandosi sangue sul mento.

Il nanerottolo più vicino, alto una cinquantina di centimetri, il ventre pingue e massiccio che ricadeva come un'ondata di lava fusa sui luridi peli del pube, si avvicinò e gli poggiò una mano di calli e verruche sul polso.

Le dita parvero attraversare pelle-ossa-midollo, qualcosa di profondo e indescrivibile all'interno del suo organismo.

E l'ambiente circostante si dissolse, colando in un ribollio di acque lorde e fogliame, per lasciare spazio all'orrore che s'intersecava col nostro mondo.

Quella era la terra degli gnefri.

Un cuneo del loro universo piantato nel reale, in quell'angolo di Valnerina.

Era come osservare due immagini sovrapposte, la proiezione di due diapositive inceppate l’una sull’altra.

Rami, notte, cielo e piccoli arbusti, come fatti di nebbia, velavano un mondo alieno, dall’altra parte.

Non era un bel luogo. Un bosco di alberi turriti e sbilenchi, vivi, i cui rami si muovevano come braccia ossute, percorsi da arterie che pompavano una linfa venefica e senziente. Profonde caverne d’oro scavate nel tessuto stesso di quella realtà – Butieri non sapeva come altro descriverle – ospitavano gnefri e bestie simili a larve zannute, percosse dai folletti con piccole verghe nodose.

Lo scrutavano.

Il suolo era un pasticcio molle e vischioso simile a melassa, dove i piedi delle entità sprofondavano con un flop nauseabondo.

Era vivo.

Il terreno aveva occhi.

Le nubi sghignazzavano.

Le stelle sputavano denti marci nel ventre molle di una collina punteggiata da città organiche, pulsanti.

Fili d'erba azzurrina s'avvitavano e annodavano a creare proboscidi che suggevano un vapore rossastro che fluttuava a mezz'aria.

Tentacoli neri dipartivano da un enorme astro che s'arrotava nel cielo di un ocra cangiante, allungandosi verso il basso come viticci, attratti anch’essi dalla caligine vermiglia.

Non c'era prospettiva.

Senso.

Sanità.

Solo orrore, delirio, sgomento.

Franco Butieri urlò, mentre altri gnefri s'accostavano alle sue gambe, punzecchiandolo con i loro bastoncini.

Urlò ancora più forte quando capì che il vapore rossiccio fuoriusciva dal suo corpo, da ogni poro, una nebbiolina che pareva fluttuare di là suscitando risolini e grida d’esultanza nel piccolo popolo.

Se ne nutrivano.

L’avvolgevano intorno alle loro stecche come zucchero filato intriso di sangue, lo portavano alla bocca e lo lappavano con avide linguette biforcute.

Era la sua paura.

Sì. Franco Butieri pensò di capire. Quelle creature e quell’universo conficcato nel nostro si nutrivano dei timori del mondo degli uomini.

E in un mondo dove la paura non faceva che aumentare sguazzavano come api nel miele, trovando un’inesauribile fonte di sostentamento.

Lui stesso, quanta paura aveva avuto negli ultimi mesi, quanta apprensione aveva macerato e fermentato dentro di lui? Non erano state le zanne calde del terrore ad azzannargli i polpacci e il cuore quando aveva dovuto dire a sua moglie che stavano andando dal culo? Che la Terni Vernici era destinata a fallire, insieme alla vita di chissà quante persone?

Ce n'erano tanti come lui.

La Paura alimenta Paura.

E quei piccoli bastardi strisciavano poco oltre il nostro reale, osservandoci, nutrendosi di essa, chiusi nelle loro piccole caverne d’oro, perlopiù invisibili, insensibili a tutto se non alla loro fame.

Antiche cronache parlavano di avvistamenti di folletti nella zona. Sparizioni. Persone impazzite.

Erano solo lì, in Valnerina? Ovunque?

Franco Butieri non lo sapeva. Ma sentiva il contatto delle piccole mani deformi su di lui che lo rigeneravano, infondendogli al contempo forza e terrore. Volevano tenerlo in vita, più a lungo possibile, per spremere tutta la sua paura e poi gettarlo via come una banconota fuori corso.

Io volevo solo morire. Perché?

La luna parve avere il sopravvento sull’astro tentacolato che ora si pasceva di rosso come una sanguisuga. I suoi raggi rimbalzarono sulla canna della nove millimetri nascosta dal fogliame.

Franco Butieri, ormai nient’altro che una vescica piena di disperazione, afferrò l’arma.

Se la piantò contro la tempia e osservò con aria di sfida la masnada di gnomi che banchettava col suo terrore.

L’indice si fletté sul grilletto.

I cacciatori che trovarono il cadavere di Butieri non riuscirono mai più a togliersi dalla testa il sorriso luminoso che gli curvava le labbra insanguinate.