L’edificio, un cilindro sgraziato di cemento grigio e pilastri corrosi, spuntava come un fungo tra i piazzali pieni di macchine abbandonate e i capannoni in rovina.
Filieri scese dall’auto di servizio, seguito dal compagno. La strada era ridotta a un ammasso di asfalto sbriciolato e buche piene di erbacce.
Fissò con una smorfia il portone d’ingresso. Il vetro scheggiato, la vernice spellata e le macchie di ruggine simili a muffa rossa la dicevano lunga sullo stato di abbandono. Il sole di Luglio incendiava le aiuole incolte e i vasi vuoti sul marciapiede. Persino le mosche evitavano di volare, bloccate dalla cappa di umidità, rimanendo immobili nelle rare zone d’ombra.
Allungò la mano e strattonò la maniglia, senza risultato.
— E’ rotta — sbuffò Aironi, scansandolo con un gesto brusco. Tirò un calcio sull’anta e spalancò l’infisso. — Tutte le volte la solita storia. Bloccano la porta per poi passare dalle finestre nel seminterrato. Ogni tanto qualcuno non ha voglia di fare tutto il giro e toglie i puntelli.
Buttò uno sguardo all’interno, verso un corridoio buio. — Senti che puzza! — concluse sputando per terra.
Filieri fece un passo in avanti, contemplando il budello nero senza fine. Il pavimento era ingombro di cartacce, sacchetti di immondizia e resti di escrementi. L’aria sapeva di chiuso e di cipolle fritte.
Al momento dell’assunzione nessuno all’Agenzia Elettrica gli aveva parlato di simili sopralluoghi. Allacciare impianti di illuminazione o, al massimo, staccare contatori agli utenti morosi, aprendo sportelli d’acciaio tra le siepi dei giardinetti. Questo era il suo lavoro, non certo trascinarsi in palazzi abbandonati e pieni di sporcizia.
— Andiamo figliolo, non startene lì impalato. Entriamo. — Aironi, il suo tutor anziano, gli fece cenno di seguirlo. Inspirò una boccata d’aria e lanciò una sonora bestemmia. — Questo è l’Hotel House — spiegò acido scuotendo la testa. — Venti piani per trecento appartamenti. L’orgoglio della città, il perfetto centro per i turisti estivi. In dieci anni è diventato un covo di clandestini, rifugiati e disperati. Locali senza valore, sicurezza fuori controllo e bollette mai pagate. Così ogni tanto ci tocca staccare un contatore o, peggio ancora, controllare che non ci sia pericolo di incendio.
Filieri premette il pulsante della luce. Un paio di neon iniziarono a scoppiettare, gettando ombre spigolose sulle pareti.
— Gesù, ma perché non lo sgombrano? — mormorò.
— Ci vivono più di cento etnie diverse. Nessuno vuole impegnarsi, meno che mai i proprietari, che ormai hanno perso ogni speranza. Il Sindaco non si impiccia, teme una rivolta sociale. E’ un edificio senza valore, solo pachistani e cinesi hanno comprato qualche appartamento, ma anche loro sono in difficoltà. E’ tutto abusivo, qui dentro.
— Come accidenti ci vivono?
— Sono organizzati in comunità — sospirò l’altro rassegnato. — L’anno scorso il Dipartimento Antropologico dell’Università ha pubblicato un librone di mille pagine. Un caso più unico che raro. Un bell’incendio, questa sarebbe l’unica soluzione.
Consultò la planimetria, bestemmiò di nuovo e si diresse verso le scale. — Piano secondo — commentò asciutto.
Salirono su per una scala male illuminata, così lurida da rendere i gradini scivolosi, per sbucare in un nuovo labirinto.
Non avevano nemmeno messo piede sul pianerottolo quando un topo, grande come un cucciolo di cane, schizzò da un buco e attraversò il corridoio, costeggiando il lato opposto. Poi si fermò lanciando ai due uno squittio di sfida.
Prima ancora che Filieri potesse reagire una lama da macellaio scese sull’animale, spaccandolo in due. La bocca del roditore si aprì in un ringhio rabbioso e la coda, spessa e pelosa, sussultò frustando il pavimento.
Un uomo, dal volto olivastro e gli occhi a mandorla, uscì dal cono d’ombra in cui era nascosto. Raccolse la lama e con un gesto rapido infilò in un secchio di plastica i due pezzi di carne ancora vibranti.
Filieri e Aironi fissarono la scena inorriditi.
L’orientale ricambiò lo sguardo poi scrollò le spalle.
— Cibo — biascicò in un italiano stentato, prima di chiudere la porta.
Filieri trattenne un conato di vomito.
— Hai visto? — balbettò.
Il compagno, tremando per il ribrezzo, annuì e si avviò verso il fondo del corridoio. Teneva la bocca semi aperta e un filo di saliva gli colava sui baffi. Gli sportelli dei quadri elettrici spiccavano sulla parete, con i vetri in frantumi sparsi per terra come fiocchi di neve.
— Finiamo il lavoro e andiamocene. — disse preoccupato.
Filieri si avvicinò. Sugli interruttori brillavano le familiari luci rosse. Normalità. Vita reale. Elettroni che scorrono nel rame avvolto dalla plastica.
Sistemali e vattene.
Estrasse il cacciavite attaccando le guarnizioni. Un attimo dopo si sentì toccare sulla spalla. Aironi, pallido come un cadavere, indicò con la mano un portoncino, con un buco al posto della serratura e un foglio appeso, scarabocchiato con caratteri cinesi. Un altro topo, grasso e dai lunghi baffi, grattava sulla plastica cercando di entrare.
— Che vuoi fare? — chiese Filieri senza fiato.
— Hai mai visto un topo comportarsi così?
— Cambiamo i differenziali e usciamo — replicò lui con ansia. Se ne fregava dell’anzianità del collega. Voleva solo rivedere il sole
Aironi, per tutta risposta, spinse la porta con la punta del piede, aprendola. Il ratto si infilò rapido dentro.
Prese la torcia appesa alla cintura e illuminò l’interno.
Fece un salto indietro, finendo addosso al compagno.
Il pavimento, un ammasso di occhi, code e corpi tozzi, brulicava di vita come un mare in tempesta,
Topi.
A centinaia, ammucchiati l’uno sull’altro in un groviglio inestricabile. L’appartamento non aveva pareti divisorie. Da un lato un cumulo di materassi faceva da nido a colonie di ratti, che entravano e uscivano dai buchi dell’imbottitura come api in un alveare. Dall’altro lato, invece, due orientali, vestiti con un camice bianco sporco di sangue, macellavano animali su un tavolo di plastica, tirando colpi secchi di coltello.
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