Nicola Lombardi, ferrarese, classe 1965. Le sue storie del terrore ricoprono quasi un trentennio del panorama horror italiano. Al di là della tua produzione letteraria, che persona è Nicola Lombardi nella vita di tutti i giorni?
Domanda imbarazzante. Non è mai facile, e neppure attendibile, formulare rappresentazioni di sé. Chi mi circonda (e a volte sopporta) sarebbe senz'altro più qualificato a rispondere. Comunque, posso garantirti che nella vita di tutti i giorni sono allenato a non lasciar trapelare affatto quanto con buona costanza mi ribolle in testa: lavoro in una libreria religiosa, e la domenica c'è pure chi mi affida (ignaro!) i suoi bambini per il catechismo... Insomma, come puoi vedere, il Nicola quotidiano sa mantenersi a distanza - pur se solo all'apparenza - dal Nicola narratore di incubi. Non dico che siamo in casa di Jekyll & Hyde, ma ci aggiriamo nei paraggi.
Quando e perché hai iniziato a scrivere?
Le mie prime (e assolutamente non memorabili) prove narrative risalgono ai quattordici, quindici anni. La ragione per cui ho cominciato a scrivere risiede essenzialmente in una passione sfrenata per l'horror, passione che coltivo fin da bambino. L'emulazione è stata poi un'altra molla fondamentale; ho acquistato il mio primo libro di racconti dell'orrore all'età di tredici anni (libro che paradossalmente si intitola Il secondo libro dell'orrore!), e credo proprio che da quel momento sia maturato in me il desiderio di infilare in qualche libro, un giorno o l'altro, anche il mio nome.
Come sei entrato nel mondo della scrittura?
Ho cominciato a pubblicare i miei primi racconti (i primi divulgabili, intendo) verso la metà degli anni Ottanta, su un periodico di cultura locale ferrarese, La Loza, arrivando quindi a raccoglierne diciassette per compilare la mia prima antologia autoprodotta, Ombre, che risale al 1989. Noto con soddisfazione che quel libro circola ancora (se ne stamparono poco più di 500), e recentemente un appassionato mi è comparso davanti con una copia da autografare, reperita da qualche parte in rete. Come si dice: priceless!
Dai romanzi alla saggistica, dalle traduzioni alle raccolte di racconti, i tuoi lavori spaziano in diverse forme letterarie, ma sempre a tema horror. Qui vorremmo soffermarci sulle novelizations di alcuni film molto famosi di Dario Argento: puoi parlarcene?
Le novelizations argentiane risalgono agli anni Novanta, anni in cui ho vissuto a Roma, a stretto contatto con Luigi Cozzi, col mitico negozio Profondo Rosso e col gruppo degli scrittori Neo Noir (Giovannini, Teodorani, Minicangeli, Tentori, etc.). La casa editrice Newton & Compton decise di ripubblicare un classico ormai fuori catalogo della Sonzogno, Profondo Thrilling, che comprendeva le versioni romanzate dei primi tre gialli di Dario Argento scritte da Nanni Balestrini; si ebbe però l'idea di integrarlo aggiungendo altri due film, per cui Cozzi si prese l'impegno di 'novellizzare', diciamo così, Tenebre, e affidò a me Profondo Rosso. Onore immenso, dico solo questo. In seguito si compilò una seconda antologia, Terrore Profondo, e in quel caso prenotai con entusiasmo Suspiria, da sempre il mio cult-movie, in assoluto. Per quanto riguarda l'aspetto tecnico della stesura delle due novelizations, pur avendo a disposizione le sceneggiature originali scelsi di trarre direttamente dai film tutti i dialoghi risultanti nelle versioni finali, per poi costruirci attorno l'adeguato impianto narrativo. Naturalmente, niente dvd, all'epoca, ma solo VHS; per cui, ci volle un minuzioso e paziente lavoro a base di tasti 'play' e 'still', mettendo a dura prova il videoregistratore... Ma devo dire che la soddisfazione ha poi ripagato ampiamente ogni sforzo. Entrambe le novelizations sono state poi ripubblicate da Profondo Rosso Edizioni, all’interno dei volumi monografici dedicati ai rispettivi film.
I ragni zingari (Edizioni XII, 2010) e Madre nera (Crac Edizioni, 2013) sono alcune delle tue recenti produzioni letterarie. La Cisterna (Dunwich Edizioni, 2015) è il tuo ultimo romanzo, il quale sta riscuotendo molto successo (recensione su Horrormagazine: www.horrormagazine.it/libri/9323). Puoi raccontarci la genesi di questo lavoro?
L'idea di base risale a prima ancora di Madre nera, però ho preferito lasciarla cuocere in testa ancora per un po', prima di sfornarla. Ho il sospetto che alla radice si nasconda un accumulo di tensioni interiori generate dal bombardamento di notizie drammatiche legate all'inarrestabile insicurezza – sociale, morale, politica - in cui ci troviamo a vivere. Da inventore di storie, dunque, ho provato a spingere oltre il mio disagio, dando libero sfogo a fantasie distopiche per mettere in scena una delle varie, (im)possibili estreme conseguenze di un malessere generale, e immaginando quali forze autodistruttive potrebbero scendere in campo, se ci si affidasse a un certo tipo di autorità. Con tutti i problemi di coscienza che ne conseguirebbero.
Sotto questo punto di vista, il romanzo assume i connotati di una “velata” protesta sociale, quindi. Se così fosse, non credi che per la narrazione l'utilizzo della “prima persona” sarebbe stato ancora più mordente nei confronti del lettore?
No, e per due semplici ragioni. Innanzitutto l'economia stessa della narrazione avrebbe reso improbabili e artificiosi troppi snodi; la "prima persona" è pericolosa da maneggiare, quando le vicissitudini del protagonista sono tali da rendere poco credibile il fatto che sia lui stesso a raccontarle, a meno che non si ricorra a espedienti pretestuosi che personalmente amo poco. Comunque, se vogliamo, possiamo anche parlare di una "prima persona mascherata", dal momento che il punto di vista del narratore non si stacca un solo istante da Giovanni (con l'unica ovvia eccezione dell'epilogo) e il lettore si ritrova inesorabilmente chiuso nella Cisterna con lui. In secondo luogo, per la particolare inclinazione politica e sociale dei temi sottesi al racconto, ho trovato più opportuno interporre un separatore fra me e l'ideologia incarnata dalle Cisterne; dopo tutto, si sta trafficando con un’apologia di estrema destra che per motivi puramente narrativi non ho ritenuto di dover stigmatizzare apertamente (per scongiurare il rischio di debordare in retoriche ben poco adatte al romanzo).
Il protagonista del romanzo, così come tutti gli altri personaggi, sono italiani. Scelta apparentemente normale per uno scrittore italiano. Tuttavia sappiamo molto bene che tanti autori italiani preferiscono ambientare le loro storie “altrove”. A che punto credi che siamo arrivati in Italia con questa strana esterofilia da parte di molti dei nostri autori?
Non ho pregiudizi, in tal senso, e non abbraccio la posizione talvolta oltranzista di chi sostiene che gli autori italiani debbano per forza ambientare le proprie storie nel nostro Paese. Però la scelta di un’ambientazione straniera deve nascere da una precisa esigenza narrativa, e non da un’esterofilia d’effetto, fine a se stessa. Come ho già sostenuto in un’altra occasione, qui non si tratta solo di sostituire John a Mario o Craven Road a Corso Garibaldi: occorre valutare con obiettività se la storia che si vuole raccontare può, o addirittura deve, essere ambientata in una certo Paese piuttosto che in un altro perché possa ritenersi riuscita, secondo le intenzioni dell’autore. Collocare le proprie narrazioni in contesti nostrani, che si conoscono, è senz’altro più comodo, ma ci sono storie che per loro costituzione richiedono determinate ambientazioni. D’accordo l’italianità, a patto però che questa non si trasformi in un recinto per la creatività.
Quanto c'è in questo romanzo, e magari in generale nelle tue opere, di scritto di getto e quanto di rivisto più volte? Insomma, qual è la tua “tecnica” di scrittura, se ce n'è una?
Di norma io non scrivo di getto. Pondero, rileggo, affino, correggo, taglio... (e ciò che sfugge a me, non sfugge mai all'editor, se è in gamba). Capita, a volte, che mi lasci trasportare dell'ispirazione del momento e mi conceda di buttar giù brani sull'onda di una particolare spinta emotiva, ma mentre lo faccio ho sempre la consapevolezza che poi dovrò tornarci sopra e rivedere il tutto, con disciplina. Invidio chi riesce a farsi esplodere la testa sulla pagina bianca, senza incappare in trappole sintattiche, ripetizioni o ingenuità; io trovo assolutamente necessario imbrigliare il caos dell'istinto e sottoporlo a vari filtri, prima di presentarlo.
Puoi descriverci una giornata tipo di scrittura?
Sarò breve, perché non ho affatto una giornata tipo. Quando le condizioni lo consentono scrivo col portatile in treno (sono pendolare, Ferrara-Ravenna); oppure durante la pausa pranzo, sigillato all'interno della libreria di cui sopra; oppure ancora, più prevedibilmente, nel mio studio, a casa... Insomma, non si può davvero parlare di 'giornata tipo'. Approfitto delle occasioni disponibili, diciamo.
A che punto credi che sia l'horror in Italia?
Per poter dire a che punto si trova un certo fenomeno occorrerebbe sapere da dov'è partito, e soprattutto dove sta andando. Per quanto posso constatare, ho l'impressione che l'horror narrativo italiano sia in deciso fermento, anche se non certo a livelli di editoria mainstream, questo è ovvio. Il digitale ha rappresentato in questo senso una rivoluzione senza pari nel mondo della scrittura, offrendo a tanti autori, anche talentuosissimi, nuove opportunità insperate fino a pochi anni fa. Certo, come ho rimarcato in altre occasioni, la possibilità di autoprodursi a bassissimi costi in digitale ha pure spalancato le porte a tanti prodotti di bassa o bassissima qualità; ma per questo effetto secondario confido sempre nel potere regolatore delle implacabili e naturali leggi di mercato.
Puoi anticipare ai nostri lettori a che cosa stai lavorando in questo momento?
Sto ritoccando un thriller storico ambientato tra le ombre stregonesche del Seicento beneventano, scritto a quattro mani con Luigi Boccia. Ho poi voluto inseguire un desiderio che coltivavo da tempo, quello di curare un'antologia di racconti horror e fantastici; è nata così Malombre, che riunisce dieci ottimi rappresentanti dell'odierno panorama nero italiano (e sto attualmente cercando di chiudere accordi editoriali). Mi appresto poi a tradurre una raccolta di racconti di Seabury Quinn, e in attesa di concretizzare la pubblicazione di alcuni miei racconti su riviste americane. Mantengo gli impegni di rubrichista per il sito Letteratura Horror e di redattore per la neonata rivista Weird Movies.
Ai tanti ragazzi che vogliono intraprendere il mestiere della scrittura, che consigli ti senti di dare?
Sicuramente, il mio primo consiglio è quello di maturare un solido senso di autocritica. Non tutte le idee che ci saltano in mente meritano di essere raccontate, per cui è utile imparare a riconoscere il valore di un'ispirazione; e il modo migliore per farlo è quello di mettersi nei panni del lettore, il quale ci dedica speranzoso una fetta del suo tempo e difficilmente perdona il fatto di venir deluso. Chi vuole scrivere, pertanto, si assume un certo rischio e una certa responsabilità, e ha l'obbligo morale di essere anche un avido e attento lettore: sia per rafforzare la propria costituzione stilistica, sia per evitare di incorrere in un difetto diffuso, ovvero quello della scarsa originalità. So bene che essere originali, oggi, soprattutto in un campo tanto arato come quello dell'horror, non è impresa facile; ma si può e si deve provare, scavandosi dentro con metodo, e soprattutto sviluppando un approccio il più possibile personale con la materia oscura che si intende plasmare.
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