Giacomo Cacciatore, autore de Il terrorista dei generi. Tutti i film di Lucio Fulci insieme a Paolo Albiero (potete leggere qui la recensione di HM), ha accettato gentilmente di rispondere a qualche nostra domanda riguardo al suo nuovo libro, a Fulci e a se stesso…
Raccontaci la tua "prima volta al cinema" con Lucio Fulci.
Credo che sia stata con Zombi 2. Lo scenario: il cinema Edison, vecchia sala di seconda (o anche terza) visione a due passi dalla casa dove abitavo allora, nel quartiere Albergheria di Palermo. Ricordo anche che non andai a vedere Zombi 2 per via di Fulci, ma “a causa” di Romero. Non avevo potuto vedere lo “Zombi” romeriano perché era vietato ai 18, e io di anni ne avevo dodici o giù di lì. Ora, quel film per me era una specie di supplizio di Tantalo, mi si passi l’accostamento un po’ cannibalistico. Me lo ero perso anche nel cinema di quartiere, dove era più facile entrare nonostante il divieto, poiché le “maschere” chiudevano un occhio. Mi accontentai così del “surrogato” fulciano, anch’esso vietato ai minori, che era in programmazione dalle mie parti. Per scoprire che di surrogato non si trattava. Rammento ancora la sequenza di apertura del film così come la si vedeva sul grande schermo: una testa incappucciata che esplode allo sparo di una pistola “western”, nella fotografia luminosissima di Sergio Salvati. Le fibre di sacco del cappuccio che danzano, abbaglianti, nella luce. “Ora la nave può partire…”. Vedere un film di Fulci al cinema era un viaggio su un vagoncino delle montagne russe. Allora pensavo che fossero vetture un po’ sgangherate, ma lanciate su un percorso assolutamente folle. Bello.
Quale è stato il tuo personale "percorso" di appassionato tra le sue opere? Quale la particolarità del suo cinema che più ti ha calamitato?
Confesso di aver preso Fulci sottogamba per molto tempo. Dopo il primo innamoramento, da bambino, ho attraversato un periodo in cui il mio massimo ideale estetico, come spettatore di cinema, era lo stile del primo Dario Argento. Da qui, il confronto sterile - e un po’ adolescenziale - tra due autori agli antipodi. Per me Argento era un esempio di eleganza visuale e, in riferimento alla sua stagione d’oro, lo è ancora. Fulci lo vedevo un tantino… sbracato. Poi mi sono reso conto che non avevo capito niente, che l’esagerazione faceva parte di uno stile assolutamente unico e irripetibile. E a proposito di particolarità, quella che più mi colpisce nel cinema di Fulci, a oggi, è l’assoluta visceralità. Non parlo di budella à la Fulci, ovviamente, ma del modo che Lucio aveva di girare, soprattutto nel suo periodo migliore. Era come se quell’uomo fosse un tutt’uno con la macchina da presa. Prova ne sia che è stato un maestro del montaggio in macchina: lunghe sequenze di tensione girate senza stacchi, orchestrate magnificamente, con l’aiuto di carrello, dolly, zoom e cambi repentini di focale. Tecnica che richiedeva un rapporto quasi simbiotico con la cinepresa. Fantasticando, direi che se uno osserva con attenzione certe scene, può persino indovinare di che umore fosse Fulci nel giorno in cui le ha girate. Se era incazzato, se era felice, se aveva mangiato bene o male… Dove lo trovi, oggi, un regista italiano la cui personalità letteralmente “trasuda” dalle sequenze dei suoi film?
Nonostante la sua recente riscoperta da parte di numerosi autori stranieri, come mai così pochi testi sulla sua opera?
Primo: perché ha una filmografia sconfinata. E, come spero risulti da Il terrorista dei generi, ogni singolo film di Fulci è in qualche modo concatenato all’altro, nonostante la diversità dei generi. Quindi lavorare su un regista come lui è una faticaccia, o tutto o niente, a meno che non ci si limiti, per questione di comodità e di vendibilità, a fare un’analisi parziale della sua opera. Parziale e monca. Concentrandosi – per esempio – soltanto sul periodo “horror”, cioè quello più appetibile per il pubblico e per gli editori. Consideriamo pure che Fulci era un eccezionale bugiardo. Il che rende quasi impossibile ricostruire la sua vita e le sue vicende lavorative in modo attendibile senza aver prima ascoltato centinaia di “testimoni” che confermino o meno le affermazioni fatte dal regista nelle sue interviste.
Perché così poca considerazione in Italia sulle sue opere e sulla sua figura? In questo senso il vostro saggio credi che possa in qualche modo sostenere la sua "causa"?
Quando si parla di scarsa considerazione, ovviamente ci si riferisce ai critici. Perché bisogna sottolineare che il pubblico ha quasi sempre mostrato di apprezzare i film di Fulci. D’altronde si trattava di pellicole confezionate da un maestro del cinema popolare, in grado di raccontare e intrattenere come pochi. E il continuo recupero su home video delle opere del regista conferma e alimenta questo apprezzamento. Che cosa muova i giudizi della critica nostrana, non saprei dire. O forse sarebbe un discorso periglioso, che parte da alcuni casi di ostracismo ideologico alla rivalutazione del cosiddetto “trash” senza distinzioni di qualità. Quindi un fenomeno complesso, ancorché incoerente. E’ triste constatare come gli attestati di merito arrivino sempre dall’estero; quando un Tarantino o un Clive Barker ci avvertono che, in Italia, abbiamo avuto dei registi con la ‘R’ maiuscola e non ce ne eravamo accorti. Io spero che il Terrorista dei generi sia uno strumento per avvicinarsi non solo al cinema di Fulci, ma anche alla storia del cinema popolare italiano. Perché leggere di Lucio Fulci significa anche addentrarsi in un universo a sé, fatto di personaggi incredibili: caratteristi, tecnici, attori, produttori di filoni e sottofiloni.
Albiero e Cacciatore, da dove nasce questo sodalizio? Quando e come è nata l'idea di un saggio "completo e ufficiale" su Fulci? Come vi siete divisi i compiti?
Accadde un’estate - molto prima di quando cominciammo a lavorare al libro - in cui vedemmo insieme Paura nella città dei morti viventi in videocassetta. Una pessima cassetta, tra l’altro. Arrivati alla sequenza di Daniela Doria che vomita gli intestini come se fossero cannelloni indigesti, cominciammo a ridere e ipotizzammo di archiviare Fulci nel novero dei pazzi scatenati. Però ricordavamo che quello strano tizio aveva fatto anche Zombi 2. E L’aldilà. E tante altre cose. Film che eravamo andati a vedere da adolescenti, facendo carte false per entrare in sala. Credo che continuammo a pensare a Fulci nei giorni seguenti. Forse alla ricerca di un “perché” alla follia di quella sequenza degli intestini della Doria. Lo trovammo vedendo o rivedendo tutti gli altri film del regista. A quei tempi, metà degli anni ‘90 (ma posso sbagliarmi) si sapeva poco di Fulci, tranne che fra gli specialisti. Non c’era dietro il “fandom” su larga scala di oggi, almeno in Italia. Internet non era ancora così diffuso, da noi. C’erano soltanto, credo, un bel libro-intervista di Romagnoli, qualche servizio su riviste come Fangoria (nostrano), Nosferatu, e pessime recensioni di Kezich. Che faccia aveva Fulci? Quanti anni aveva? Io non lo sapevo. Così, andando avanti, scoprimmo che Fulci andava studiato. Che era un pezzo di storia del cinema. E ciò che era cominciato con uno sghignazzo, per noi, si era trasformato in passione e ossessione. Andando ai metodi di lavoro: io mi sono occupato di quasi tutta la parte critica e della revisione totale de Il terrorista dei generi. Ho cercato di dare un taglio “narrativo” al prodotto nel suo complesso, aiutato da mia moglie Raffaella Catalano, che è anche editor. La revisione (ma dovrei dire “le” revisioni) di 400 pagine è stata impresa non da poco. Albiero ha fatto quasi tutte le interviste, le ha inserite nel testo e ha raccolto i dati inediti. La ricostruzione storica dei “generi” per grandi linee è stato frutto di un reciproco scambio di competenze.
Avete impiegato sei anni per completare il vostro lavoro: quali sono state le difficoltà principali nella sua realizzazione?
Avere sempre a portata di mano dosi massicce di valeriana e gocce di Lexotan, e cercare di non scannarci a vicenda. In realtà, ogni fase o sezione del libro ha presentato vari gradi di difficoltà. L’elaborazione delle parti critiche è stato un continuo aggiungere, limare, integrare, vedere e rivedere i film, appuntare, etc. Sfibrante. Sul piano della fatica fisica oltre che “intellettuale”, suppongo che reperire dati e centinaia di persone da intervistare non sia stata una passeggiata. Le testimonianze andavano scremate, inserite nel testo. E le telefonate… costano.
Avete intervistato decine di persone: quali sono state le testimonianze "più particolari" tra quelle da voi raccolte?
Personalmente, posso citare Lando Buzzanca. Anche per lo scenario suggestivo in cui l’ho incontrato: una sala del Grand Hotel Villa Igiea di Palermo, con un’acustica quasi teatrale. Non lo intervistavo soltanto per Fulci, ma anche per conto dell’edizione palermitana della “Repubblica”. Buzzanca mi ha praticamente “recitato” molti episodi della sua carriera, parlando di tutto: di donne, di vita, di politica (a modo suo). Con una voce ora soffiata, ora sghignazzante, che oscillava tra il comico e il drammatico. E io, che ero in veste per così dire “professionale”, lo guardavo e mi sforzavo di non pensare a “Homo Eroticus” e “Costante Nicosia”. Rischiavo di ridere, e magari lui si sarebbe incazzato. Di Fulci mi ha parlato in taxi. Poi è andato a recitare “La zia di Carlo” a teatro. Un istrione.
Hai conosciuto Fulci di persona? Che idea ti sei fatto di Fulci "uomo"?
Una domanda che rinfocola in me un grande rammarico. Avrei voluto – e potuto – incontrarlo mentre girava “Demonia”, in Sicilia. Ma non l’ho fatto. Non so perché. Forse ero troppo piccolo. A distanza di tempo, ipotizzo che ho temuto che mi avrebbe mandato affanculo. Non era nel periodo più felice della sua carriera. O magari, vedendo un ragazzo che s’interessava alle sue cose, chissà… Con questo credo di aver risposto anche all’altra domanda. Fulci uomo. Brusco. Cinico, più per difesa che per vocazione. Esilarante, colto, geniale, cattivissimo e sensibilissimo. Ma è solo una mia opinione. Non l’ho conosciuto, ripeto, ma lo immagino. Mi scrivo ogni tanto con Antonella, la figlia.
Tra gli aspetti meno conosciuti di questo artista qual è quello che ti ha più colpito?
Il suo senso dell’umorismo. Ci sono aneddoti, battute e soprannomi coniati da Fulci, nel libro, che varrebbero da soli la lettura de Il terrorista dei generi.
Giacomo, oltre che saggista e giornalista sei anche scrittore: il profondo studio che hai svolto su Fulci ha "donato" qualcosa alla tua arte?
L’aspirazione a un certo pragmatismo di cui Fulci era maestro. Vale a dire: raccontare le cose nel modo più semplice e incisivo possibile. Senza l’eterno timore di esagerare o di svaccare. Mi piacerebbe avere almeno un pizzico del suo senso pratico e della sua sana incoscienza. La sua capacità di coinvolgere il pubblico – tutto il pubblico – senza per questo rinunciare a personalità, stile e tematiche assolutamente individuali. Chi scrive tende ad essere spesso un po’ troppo cervellotico. O, almeno, questo è il mio caso. La mia dannazione.
Avete in programma altri incontri di presentazione (oltre a quello del 23 aprile)?
Non saprei. Ne avrei organizzato volentieri uno nella mia città, a Palermo. Purtroppo non sarà possibile, perché la distribuzione del libro si ferma a Roma. Né è possibile pretendere di più da una piccola casa editrice che ha affrontato una spesa notevole per pubblicare un libro… delle dimensioni di un volume delle pagine gialle, e con tanto di fotografie! Ci sono siti volenterosi di appassionati che già suppliscono bene a questa carenza. Se altre presentazioni ci saranno, avverrà da Roma in su. Dove gli interessati, oltre che vedersi la presentazione del volume, potranno anche trovarlo in libreria. Forse non troveranno me, ma l’importante è il libro.
Avete avuto anche contatti per edizioni estere del vostro saggio?
Non ancora. Abbiamo avuto delle prenotazioni dal Giappone. E io sto prendendo dei contatti, anche tramite il mio agente, Piergiorgio Nicolazzini, per tentare di venderlo in Inghilterra. Ma sarà la casa editrice a decidere. Intanto, uno ci prova e propone…
Avete in programma altri lavori simili?
Non so. A me innanzitutto piacerebbe completare il mio nuovo romanzo per mandarlo in giro (il primo vaga già e, poverino, sta prendendo freddo) prima di imbarcarmi in una nuova avventura “saggistica”. Poi, non si può mai dire. Il mio sogno impossibile sarebbe fare una monografia, tutta mia o insieme a un altro scrittore, su Dawn of the Dead. Quello del ‘78, ovviamente. Dico impossibile perché Romero e soci non sono dietro l’angolo, purtroppo.
Ringraziamo Giacomo Cacciatore per la sua disponibilità.
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