Scalcia via le scarpe da ginnastica senza slacciarle.
Una atterra con un tonfo sullo scendiletto, centrando in pieno il naso della giraffa; l’altra precipita sullo zainetto della principessa Fiona, abbandonato semivuoto sul pavimento a fianco del comodino, proprio davanti ai miei occhi.
La rete del letto ondeggia sopra la mia testa, mentre la sento armeggiare con la tastiera del telefonino. A giudicare dalla cadenza dei pigolii, immagino che l’argomento di conversazione sia stimolante. Di qualunque cosa si tratti, dubito che riguardi la scuola: lo zainetto è lì da ieri mattina, intatto com’era quando è tornata da lezione. Per tutta la domenica non si è preoccupata un minuto di controllare il diario, o di studiare, o di fare i compiti.
Clara li faceva. Ma Clara non scalciava via scarpe da ginnastica.
Le sue erano di tela, e lei le slacciava attenta, e le allineava con cura ai piedi del letto, proprio davanti ai miei occhi, ogni sera, tutte le sere. Poi si sfilava i calzini e li riponeva nelle scarpe, ciascuno nella propria, ogni sera, tutte le sere tranne il mercoledì e il sabato, quando li portava nel cestone della biancheria da lavare. Seguivo con lo sguardo i suoi piedini nudi, quelle due volte la settimana, dirigersi verso la porta della cameretta, e li sentivo allontanarsi verso il bagno; sentivo il rassicurante cigolio del coperchio di vimini del cestone, e i passettini scalzi che si riavvicinavano, e sorvegliavo attento tutto il loro tragitto verso il lettino. Clara non saltava sul letto da tre passi di distanza, schiantandosi sulla rete e deformandola fin quasi al pavimento.
Clara odorava di buono. Anche le sue scarpe, e perfino i suoi calzini odoravano di buono.
La scarpa sul pavimento puzza di plastica sudata. I calzini non li ha nemmeno tolti. Chissà: forse teme di aver freddo, stanotte. I suoi piedi puzzano di latte andato a male. Sotto al letto, tutto intorno a me, c’è polvere, e vecchie carte di caramelle appiccicose, e foglietti scarabocchiati, e un fazzolettino accartocciato di moccio rappreso.
Clara non usava fazzolettini di carta. I suoi fazzoletti avevano il bordo di pizzo, e le iniziali ricamate. Quello rosa glielo avevo regalato io. Lei non lo ha mai saputo; ma lo sapevo io, ed è questo l’importante.
La rete cigola, mentre lei si rigira nel letto per spegnere la luce.
Io attendo.
Il buio è buono.
Il buio è mio amico. Il buio mi nasconde alle prede, e mi difende dai nemici. Il buio non ha orrore di me e del mio aspetto. Il buio mi accoglie, e mi culla, e mi ama.
Il buio è casa.
La casa è al buio, adesso, e al silenzio.
Lei dorme. Sento il suo respiro, un palmo sopra al mio viso. Un palmo sopra a dove sarebbe il mio viso, se io avessi ancora un viso. O un palmo.
Scivolo da sotto al letto, senza turbare il silenzio della stanza.
La mia ombra scivola sulle coperte senza turbare il suo sonno.
Resto a lungo immobile a fissarla dormire.
Ora assomiglia proprio a Clara, odore a parte.
Riposa su un fianco, col volto abbandonato sul cuscino; tra le labbra socchiuse riesco a intravvedere la punta della lingua, stretta tra i dentini ancora incorrotti dall’incuria e dalle bibite zuccherose di cui si riempie.
Insinuo i moncherini delle dita tra i suoi capelli sciolti. Sono lisci e morbidi al tatto, proprio come quelli di Clara. Glieli scosto dal volto e glieli spingo dolcemente dietro l’orecchio. Lei piega le labbra in un sorriso, senza svegliarsi, e mormora un qualche nome amato e segreto. Mi piace immaginare che sia il mio, anche se lei non lo conosce.
Una lacrima sgorga dal mio unico occhio senza palpebra e rotola sfrigolando lungo la devastazione dello zigomo sinistro. Non credevo di poter piangere ancora. D’impulso, mi chino sulla sua fronte e la sfioro con quelle che un tempo avevo per labbra.
Poi le mie dita monche cercano la sua carotide. Un tocco deciso e veloce, e il suo corpo si affloscia nel sonno. Scosto le coperte che la proteggono e me la carico in spalla senza sforzo. All’improvviso mi fermo, colto da un pensiero. Mi volto, la depongo sul letto e faccio scorrere le mani lungo il profilo delle sue gambe lunghe e sottili, scivolando pian piano fino ai piedi. Le sfilo a uno a uno i calzini e li lascio cadere sulle coperte. Poi la sollevo, me la risistemo in spalla e mi incammino verso la porta.
Il buio è mio amico. Ma lei teme il buio.
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