Tornano dopo 27 anni dal loro primo album uscito i The Mission, con The Brightest Light (Oblivion/Spv). La band, formatasi nel 1986 dalle ceneri dei Sister of Mercy, ha subìto svariati cambi di line-up, ma Wayne Hussey (voce e chitarra) è rimasto stabile nella sua posizione di colonna portante della band, dall'anno di formazione. Undici album in carriera, un gothic rock anni ottanta da hit parade, paragonabile a band di spicco come i The Cult: eccoli oggi con il nuovo album, copertina minimal nera con titolo bianco impresso, undici tracce splendide, senza troppe pretese, ma riuscite e mature dal punto di vista musicale.
The Brighest Light si apre con Black Cat Bone, una specie di intro seducente, velata di un alone di misterioso fumo grigiastro. Un basso corposo e deciso scandisce i passi di questo brano, sul quale via via vanno a incastrarsi gli altri strumenti: la comparsa della voce è una scarica di endorfine, è esattamente quello di cui si sentiva il bisogno e la mancanza. Il pezzo carica, carica e continua a caricare, senza però mai esplodere veramente: la batteria lascia un senso di suspense, sembra pronta a sfogare rabbia ed energia, ma si trattiene digrignando i denti e sfidando se stessa. Un cortocircuito senza scarica a terra, che blocca i nervi tesi per otto inesorabili minuti ricchi di emozioni e sensazioni.
Sicuramente Black Cat Bone è l'antipasto perfetto per un banchetto musicale che si prospetta succulento e intrigante fin da subito, propone le potenzialità del lavoro senza sbilanciarsi troppo, ma anzi, imbrigliando l'ascoltatore in una gabbia di lunga attesa, che si apre, finalmente, col giro di batteria che dà inizio a Everything But The Sequel. Un bel giro di chitarra catchy e accattivante, seduce l'orecchio e induce un lento dondolio di fianchi e collo incontrollabile, mentre la voce graffia con vigore e passione. Le dinamiche del pezzo si presentano pacate, ma pur sempre movimentate, ricche di groove e con una cadenza tipicamente britrock, per certi aspetti stoner, ma in sostanza molto entusiasmanti: una marcia depressa, ma vogliosa di cambiamento, speranzosa, con un canto lamentoso, sotto certi aspetti, ma ricco di potenza e di energia. Un gothic rock perfettamente calibrato, particolare nel proprio genere, ma pur sempre tradizionale nelle sonorità spartane e ruggenti di questi maestri dell'alternative rock britannici.
È con una chitarra ferrosa che si avvia Sometimes The Brightest Light Come, per poi prendere la strada di una traccia introspettiva e piuttosto minimale: è un brano che sa di fine estate, di vento e di ritorno da un viaggio in solitario, di campi di girasoli e spighe cullate da un vento crepuscolare. La pacatezza delle scelte melodiche si sposa perfettamente con i colpi di batteria, decisi ma dosati alla perfezione, che conducono a poco a poco verso un assolo non troppo sfarzoso, piuttosto semplice, ma di grande funzionalità. Da notare il ritornello, nel quale non si ha un'evoluzione generica di spessore negli strumenti, bensì nella voce, che aumenta la portata melodica crescendo di tonalità, ma restando pur sempre graffiante e roca al punto giusto.
Born Under A Good Sign è un pezzo movimentato e ottimistico, le sonorità sono più allegre e intrise di una lucentezza musicale finora non riscontrata negli altri brani: è una luce psichedelica che si esibisce in una danza popolare scatenata per strada, è movimento e vitalità travolgente. Il giro di accordi del brano è un arcobaleno, uno strip-tease di colori sfarzosi e accecanti: la voce rimane sporca, ma intrisa anch'essa di una potenza diversa, più bianca che nera, a differenza degli altri brani; ma rimane comunque l'unica àncora di salvataggio per riconoscere i The Mission sotto quest'altra facciata felice e spontanea.
Sembra continuare la strada del colore e della felicità anche The Girl In A Fur Skin Rug. Un tempo ritmato e qualche colpo di plettro pulito, assieme alla voce, preparano a un pezzo dal sound classico piuttosto rilassante. Fluidità, tonalità accese e pacate, concorrono a rendere il brano né troppo entusiasmante, né troppo noioso: semplice e perfetto da tenere in sottofondo durante la propria quotidianità. Serenità in musica per distendere un po' i nervi, rilassarsi e godersi la quiete di un'atmosfera diversa.
Un velo di malinconia ricopre il mood di When The Clicks Shut Behind, che di primo impatto potrebbe far venire alla mente la celebre Wish You Were Here dei mitici Pink Floyd e, paradossalmente, Girl From Oklahoma (Steel Panther), al comparire della voce. Con l'evolversi, il pezzo dimostra di avere la propria personalità da ballad, introspettiva, commovente e con quel qualcosa che rattrista in modo funzionale, inducendo i propri pensieri, sentimenti e riflessioni, a venire a galla.
Una tristezza invernale ci pervade fin dalla comparsa dell'organo introduttivo di Ain't No Prayer In The Bible Can, brano che sembra l'evoluzione della malinconia timidamente evocata da When The Clicks Shut Behind, ed esplosa in un crescendo di tonalità gelide e mortuarie. Non c'è più spazio né per i colori, né per la luce dei brani precedenti: un paesaggio in bianco e nero di altri tempi si dispiega nella mente, con un corteo funebre, persone vestite di nero con la testa bassa, uomini con cappelli e donne col volto coperto da un velo nero, avvolti in cappotti e tristezza raggelante.
I picchi di emotività toccati dal pezzo sono veramente notevoli, ma l'ingresso in scena della batteria rende il tutto meno passivo, più movimentato, come se in quel corteo funebre fosse scoppiata la rabbia di tutti per la scomparsa di una persona cara, e con un grido volto al cielo avessero chiesto nient'altro che un “Perché?”.
Il grattare della voce nel ritornello rende un lungo e incontrollato brivido lungo la schiena: la passione, le emozioni, i sentimenti e la grinta si fondono in un unico travolgente cantato, arricchito da un coro che ricorda vagamente una messa. È un viaggio in un mondo immaginario dove tutti i dolori e dove tutta la tristezza corrono, saltano, urlano e si contorcono a terra in un drammatico balletto di rabbia, sperando in una luce tiepida che vada a scaldarli, a esorcizzarli e a cancellarli dalla loro dolorosa esistenza.
Cambia nuovamente tutto il panorama con Just Another Pawn In Your Game, contraddistinta da un' elettrizzante armonica a bocca, a rendere il tutto vagamente country e color ambra. Il brano suona vagamente familiare, è orecchiabile, è catchy e movimentato, andando nuovamente a contrastare con From The Oyster Comes The Pearl. Il panorama si scurisce appena appena, con una strofa leggera retta da voce, un pizzico di batteria e chitarra acustica: la situazione si evolve con l'ispessirsi della presenza degli strumenti, restando, tuttavia, su un terreno delicato e autunnale, addolcito da suoni morbidi e tiepidi.
Seria ed elegante, Swan Song è una traccia molto lineare, fluida ed emozionale, che colpisce per la portata emotiva resa perfettamente da un sound pulito e da una voce bellissima, pacata, che non graffia più, ma riesce a colpire mente e spirito di chi ascolta. È probabilmente uno dei pezzi più belli dell'intera tracklist e riesce a travolgere in una maniera differente dalle altre tracce, con una dolcezza potente, sofisticata e toccante. Sul finale una voce arrabbiata, disperata, gridata e sofferta fa accapponare la pelle, assieme all'assolo di chitarra e a una tastiera azzeccata nel sound e nella cura: è un mood blues, ma che col blues, dal punto di vista musicale, non ha niente a che fare. Swan Song si intitola, e come un cigno si muove, elegante e lenta.
Conclude il lavoro Litany For The Faithful, introdotta da un giro di chitarra acustica e da una voce baritonale e contenuta: fin da subito si presenta come una traccia scura, con influenze vaghe di un flamenco accennato e tocchi pacati di pianoforte. Ci troviamo di nuovo di fronte a una vera e propria perla musicale da brividi, sconvolgente per l'impatto emotivo se considerata la semplicità musicale e ritmica: è difficile rendere un brano così vivo e ricco di personalità con questa composizione scarna. Il finale del brano lascia in sospeso, non conclude appositamente il viaggio del pezzo e dell'album, obbligando quindi, quasi, a far ripartire da capo il lavoro, per ricominciare di nuovo un viaggio all'interno di sé, con la musica dei Mission come unica compagna.
Ascoltando The Brighest Light si riesce a comprendere cosa riescano a fare quasi trent'anni di carriera: i pezzi sono eccellenti, differenti da quelli dei The Mission dei primi anni di attività, ma altrettanto belli e sicuramente più maturi.
Più che un semplice album con undici tracce, è un lavoro che contiene undici passi all'interno di un mondo d'introspezione ed emozione, fatto di un delicato cristallo, a volte macchiato, spezzato, distrutto, a volte lucente, leggero e brillante: è la sua capacità di andarsi a fondere con l'Io di chi ascolta che ammalia e seduce, rendendo questo cammino musicale ancor più coinvolgente e intimamente sentito. Il percorso di crescita affrontato dal lavoro nel complesso ricorda da vicino la vita reale, fatta di un'alternanza continua e dolorosa, di positività e negatività, luce e tenebra, gioia e dolore.
È l'album perfetto per chiunque abbia voglia di avventurarsi dentro di sé coi The Mission come compagni, mentori ed esorcisti allo stesso tempo; o meglio: è l'album perfetto per chiunque.
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