La parola "Riflessi", scritta con grosse lettere in rilievo, occupava la parte superiore della porta a vetri dello studio fotografico. Silvia avvicinò il viso, facendo schermo con le mani per vedere all’interno. Una figura si muoveva nel buio. Per richiamarne l’attenzione scaricò sul vetro dei rapidi colpi di nocca. L’uomo sollevò lo sguardo su di lei e picchiettò il dito sull’orologio da polso: – È chiuso – sillabò.
– Maledizione – imprecò lei a mezza voce. Si era dimenticata di fare le foto per rinnovare la carta d’identità, e ormai era sera. “Chi non ha testa abbia gambe” ripeteva sua nonna. Facendo suo quel motto, si era spinta in una zona della città che di solito non frequentava: credeva che quel fotografo chiudesse più tardi, invece aveva fatto la strada per niente. Sbuffando, attraversò l’incrocio e si inoltrò nei sentieri che tagliavano il parco.
Poco distante da una fontanella, l’insegna "Photo booth" attirò la sua attenzione. La scritta, in caratteri gotici, sovrastava una grossa cabina di plastica nera profilata in metallo. La superficie lucida era interrotta da una spessa tenda rossa che ne copriva l’ingresso. Una targhetta riportava le istruzioni: regolare l’altezza del sellino, inserire le monete, non muoversi fino allo scatto del flash. Tre euro per quattro foto formato tessera. – Perché no? – si disse Silvia.
Entrò ed estrasse dalla borsa la cipria, per un veloce ritocco al make-up. Ravvivò i capelli con le mani e si mise in posa, con la schiena dritta e un sorriso accennato. I quattro flash arrivarono in rapida successione. Spero di non aver chiuso gli occhi, pensò mentre usciva dalla cabina. Un ronzio indicava che la macchina stava lavorando e lei approfittò dell’attesa per andare a bere alla fontanella. Al ritorno, era già pronta la striscia di immagini.
Nella prima, aveva gli occhi sbarrati e una mano le chiudeva la bocca.
Nella seconda, un coltello appoggiato di taglio sul collo.
Nella terza, il coltello era spostato e una sottile linea rossa ne segnava il passaggio.
Nella quarta, dalla ferita usciva un fiotto di sangue.
Silvia urlò.
Le fece eco il grido di un uccello, che si alzò in volo dal pioppo vicino, facendola sussultare. Guardò ancora le foto, senza riuscire a darsene una spiegazione: erano così realistiche! Per un istante si credette vittima di una candid camera, ma nessuno sbucò da un nascondiglio a burlarsi della sua paura. Restò con i sensi vigili, in attesa: di cosa, non lo sapeva. Si accorse di tremare.
Il sole era tramontato e le luci giallognole dei lampioni riflettevano sul terreno le ombre deformate degli alberi che costeggiavano il sentiero. Silvia riprese il cammino a passo svelto, per quanto le consentivano i tacchi delle décolleté che affondavano nel ghiaietto. Anche senza voltarsi, sapeva di essere seguita. Alle sue spalle la ghiaia produceva uno scricchiolio sinistro, sotto l’offesa di passi più pesanti dei suoi. In un impulso si tolse le scarpe e, tenendole in mano, si lanciò in una corsa sul prato. Il contatto con l’erba umida le gelò i piedi e il freddo si arrampicò su per le gambe, fin sotto la gonna. Un contrasto potente con le vampate di calore che le arroventavano il petto. La corsa fu breve: inciampò nella radice scoperta di un grosso albero e cadde a terra come una pigna.
Si rannicchiò contro il tronco e si passò una mano sulle gambe. Il cuore le rimbombava nelle orecchie come un concerto di tamburi. Dai collant strappati, la pelle graffiata pulsava dolente. Si leccò un dito e lo passò sul ginocchio per togliere fango da una ferita. Mentre era china in quell'operazione, la luce, che proveniva da un lampione avanti, si oscurò. Silvia alzò la testa e si trovò di fronte una figura massiccia in cui tutto, dall'abbigliamento ai lineamenti del viso, si trovava in un cono d’ombra che lo rendeva indistinguibile. La persona di cui aveva sentito i passi si stava piegando su di lei, inerme e senza via di fuga.
– S’è fatta male, signora? – L’uomo la prese sotto le ascelle e l’aiutò a sollevarsi. – Ce la fa a camminare? Posso accompagnarla.
La voce era profonda, il tono gentile.
– Sto bene, grazie – mentì Silvia, tra l’imbarazzo e il sollievo.
3 commenti
Aggiungi un commentoLe cabine fotografiche hanno davvero qualcosa di inquietante, forse di malvagio... o no?
Bel racconto molto breve, uno schema classico che parte però da uno spunto originale e si conclude con una bella frustata finale.
Complimenti
Gran bel racconto!
Bella l'idea e ottima la realizzazione.
Unico difetto, spero di non essere antipatica, il finale un po' troppo veloce,
Bella l'dea, bello lo stile,
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