Tre ore più tardi Fedor Grigorovič era in viaggio. Il tarantas aveva proseguito dolcemente sulla strada vicinale assecondando il suo torpore, con il fresco di metà primavera della steppa che entrava dai finestrini abbassati. Il trotto dei cavalli, il silenzio del vetturino Michail, l'orizzonte boscoso da cui veniva come un odore di bruciato e il dissolversi del crepuscolo nelle prime punture di stelle erano così lontani dall'immagine di sua moglie riversa al suolo, priva di sensi. Forse morta.
L'idea della morte di Anna lo aveva accompagnato per tutto il viaggio, eppure era rimasta un'impressione setosa allungata fra i tronchi gentili delle betulle, tra i petali dei citisi ai bordi della strada, distesa sulle immense strisce di seminato che appiattivano le emozioni sulla fine del tramonto; come se la steppa riuscisse a convincere Fedor che i tre violenti schiaffi erano stati anche pochi.
Però aveva colpito forte. Sul palmo della mano aveva sentito i denti di Anna schiacciarsi contro le guance, belle, bianche, e subito dopo rosso fuoco. Lei si era scostata e il terzo schiaffo le era finito sul collo, un po' di taglio. Mentre il tarantas ebbe uno scossone, Fedor ricordò che quel colpo in verità era stato vibrato con il polso e che i lunghi muscoli della bella nuca di sua moglie erano sembrati mollicci. Poi Anna era finita a terra. Immobile.
Michail fece un verso ai cavalli, il tarantas virò e Fedor poté vedere il piccolo villaggio di Vasilevsky allungarsi sopra una collinetta, già illuminato, e al termine di quella fila scomposta di luci tremule la vecchia casetta padronale di famiglia appena abbozzata nella semioscurità della giovane sera. Spigolosa, un po' sbilenca, con le vegetazioni grigie che avevano invaso il cortile. Isolata. Buia. Dimenticata.
Un vento impetuoso e orizzontale si spinse all'interno della carrozza e Fedor rinvenne dal suo torpore. L'immagine di Anna stesa supina nella loro casa in città, con le braccia larghe e l'ampia gonna arricciata sopra i polpacci lo fece finalmente urlare.
L'afa della steppa si condensò in un dolore inesplorato.
L'ultima volta che era stato nella tenuta di Vasilevsky la sua famiglia aveva un patrimonio di migliaia di rubli; lui aveva quindici anni e una nuova amica, Anna, che poi sarebbe diventata sua moglie.
Ora entrava nella vecchia casa di campagna sull'orlo dei quarant'anni, di un dissesto finanziario affrettato dagli sperperi di sua sorella Maria a Pietroburgo e con il pensiero di Anna che gli mordeva lo stomaco e gli mozzava il respiro.
Si mosse quasi al buio, aiutato da una luna piena affogata nell'afa che illuminò i primi passi nell'ingresso. Trovò due lampade su un tavolino da toletta che non sarebbe dovuto essere lì. Quante cose erano cambiate. Riuscì ad accendere le lampade e ne ebbe conferma. I mobili erano stati spostati, alcuni occupavano il centro del salotto come se fossero in mostra per una vendita, altri erano spariti. Ondeggiò tra le pareti, con gli architravi che raccoglievano le ombre e le ombre che risucchiavano l'eco dei passi. Fedor riconobbe il divanetto bianco imbottito di damasco che ora però era sfondato. Era stato messo davanti alle imposte che davano sulla steppa. Fedor le aprì e il vento soffiò in salotto. Entrarono bruscoli di terra insieme agli odori lontani dei pini e dei campi di segale lì attorno: quelli appartenuti alla sua famiglia. Quante verste seminate erano rimaste loro? Come si amministravano i contadini? Lo stavano derubando? Si lasciò cadere sul divanetto. Lo sbuffo di polvere fu rapito dal gioco dell'aria. Tutta la sua vita era stata un gioco, con i genitori che si erano occupati di tutto, e dopo la loro morte, la vita aveva continuato a giocare coi rubli che arrivavano seguendo regole stabilite e mai più controllate.
Fedor lo spendaccione, l'incurante, e ora l'omicida.
Strinse forte gli occhi e l'immagine di Anna invece di andare via scivolò in profondità. Si sovrappose a quella della sua bisnonna materna che col viso gonfio e la cuffietta bianca ben allacciata gli indicava l'orizzonte dal cortile e gli parlava delle rusalki, le donne dei laghi che venivano per vendicarsi dei mariti che le avevano uccise. Venivano da morte per adescarli, per condurli in una trappola mortale. Mai farle ridere. Diceva così in quelle lontane giornate in cui tutta la famiglia si riuniva lì nella tenuta, e la vita era solo pescare nel grande stagno sul retro della casa, e i racconti della vecchia bisnonna erano parte del gioco, poco prima della cena, perché lì non poteva venire alcuno a vendicarsi, né c'erano colpevoli da castigare.
2 commenti
Aggiungi un commentoUn altro ammirevole lavoro di Sergio Donato.
Se me lo avessero presentato come un classico russo ottocentesco non avrei avuto nulla da ridire.
Applauso!
Grazie, Samuele.
Ho coscientemente scelto di adattare la scrittura al periodo storico – rischiando – per spazzare via un po', e nelle dovute proporzioni della mia narrativa, tutte queste cianfrusaglie emo-punk in stile Sherlock Holmes di Guy Ritchie, per intenderci. Che sono anche divertenti, non lo discuto; però è come se fossero una ritinteggiatura fatta in fretta ma curata e con fantasie buone per le riviste di arredo. Sai, come per quegli appartamenti che sono belli visti in foto, poi ci dormi dentro una notte e vorresti aver sfogliato Topolino.
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