I Katatonia nascono a Stoccolma nel 1991 per opera di Jonas Renkse e Anders Nyström. Partiti con un doom metal infarcito di elementi death e black, hanno subito esibito forti tendenze new wave che li hanno pian piano spostati verso territori gothic, per fargli abbandonare più avanti le contaminazioni black. Atmosfere oscure, malinconiche, dissonanze, muri di chitarra, valori ritmici tendenzialmente standard, sezioni acustiche new wave e un uso sofferto della voce restano il loro marchio di fabbrica, spostandosi in ambientazioni non più dominate dal growl e incastonate in brani meno articolati, dalla forma-canzone, fino ad arrivare addirittura a influenze di rock alternativo e nu-metal.
Il loro nono studio album, Dead End Kings, è uscito il 27 agosto per Peaceville Records e si configura come una sorta di sequel dell’ultimo album del 2009, Night is the new day, alle cui strutture, atmosfere e temi si ricollega.
L’album è stato registrato ai Ghost Ward Studios & The City of Glass, prodotto dai membri della band Anders Nyström e Jonas Renkse, e mixato da David Castillo (Opeth, Bloodbath). L’artwork è curata dal fedele collaboratore della band Travis Smith.
Dead End Kings vede il debutto del chitarrista Per Eriksson così come del bassista Niklas Sandin; da sottolineare inoltre l’apporto del polistrumentista Frank Default e della vocalist norvegese Silje Wergeland (Octavia Sperati, The Gathering) nel brano The one you are looking for is not here.
“Dead End King è incentrato sui corridoi della nostra mente da cui non c’è ritorno” ha dichiarato Jonas Renkse. “Essere Re o Regina a pieno titolo in questi corridoi, anche se sono vicoli ciechi. Portare i propri pesi con orgoglio. Questo è ciò che stiamo facendo più o meno da vent’anni. Re, perché crediamo in ciò che creiamo, nella nostra fede inquietante.”
“Le porte girevoli di quest’album immettono in diversi generi musicali, che tuttavia rimangono rivestiti dal marchio Katatonia” ha aggiunto Anders Nyström. “Abbiamo camminato lungo la linea sottile del tentare di non ripetersi mai, ma anche del non distanziarci da ciò che la gente conosce e ama di noi. Ora siamo pronti a consegnare le prove, e qualunque sia la direzione adesso sta a voi decidere. Confidiamo nel fatto che la creatività e la passione di quest’album sia qualcosa che farà eco anche in un vicolo cieco.”
Uno sguardo oggettivo al lavoro mostra un prodotto sicuramente elegante, una sostanza impalpabile ed energica al contempo. The Parting parte bruscamente, tagliando il silenzio senza preamboli, come se il narratore stesse proseguendo a raccontare un discorso già iniziato; le atmosfere rarefatte sono alternate ‘progressivamente’ a sezioni più aggressive e presentano subito un buon missaggio. Il duetto con Silje Wergeland, The One You Are Looking for Is Not Here, appare ancora più sospeso, sinuoso, morbido e flessuoso, come la voce di lei che segue l’espressiva dominanza di Jonas Renkse. In Hypnone si comincia ad avvertire il crescente peso dato alle tastiere, pur se le chitarre risultano più aggressive; i passaggi dissonanti sono abbinati a frequenti cambi di valori ritmici da parte della batteria, ma le venature progressive non spingono mai i brani oltre la durata media dei quattro minuti. The Racing Heart inizia sommessa, orchestrata dalle tastiere, e finisce soffocata, per essere sommersa dall’attacco energico di Buildings, che a sezioni alternate si sposta comunque di nuovo anche in territori meno sostenuti. La cadenza accattivante di Leech è approcciata in maniera molto delicata, mentre Ambitions si mostra più ariosa nell’aprire le melodie e nel lasciare spazio alla chitarra; si tratta del brano più lungo e strutturato, nonché di uno fra quelli di maggiore impatto immediato. Nell’orchestrata e lieve Undo You, le armonie si fanno pian piano sempre più oscure, intrise di suggestioni darkeggianti, con largo spazio per piano e tastiere. Lethean è più sostenuta dei pezzi precedenti e spezza relativamente l’andamento che forse si sta facendo un po’ troppo legato ai soliti colori presenti sulla tavolozza, limitando in parte ‘l’effetto Tiromancino’ dovuto alla melanconia; le armonie acquistano suggestioni leggermente diverse e le strutture si sottomettono di più alla chitarra solista. Stessi canoni per la più massiccia First Prayer che chiude il cerchio con l’orchestrazione a tratti un po’ sfarzosa di Dead Letters che, dopo la cavalcata iniziale, si snoda attraverso i soliti percorsi ‘progressivi’ a sezioni alternate, mentre l’ossessivo tema finale viene variato con diversi organici e valori ritmici.
Il disco a ben vedere non porta niente di nuovo, tuttavia le idee sono ben sviluppate e danno vita a un lavoro di tutto rispetto che si lascia ascoltare piacevolmente.
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