Formatisi a Melbourne, Australia, nel 2003, i Ne Obliviscaris irrompono sulla scena musicale nel febbraio del 2006 ottenendo da subito ottimi riconoscimenti da parte della critica per il sound unico, dettato dalla versatilità con cui i talentuosi musicisti che compongono la line up riescono ad attraversare i generi più disparati. Le loro molteplici influenze spaziano infatti dal black al thrash, dal death al progressive, ma le incursioni non disdegnano - fra gli altri - il rock melodico, il jazz e persino il flamenco. Le loro composizioni di metal estremo, che superano spesso i dieci minuti di lunghezza, risultano talvolta molto tecniche e complesse; tuttavia, alternate a brani o sezioni d’impatto più immediato, vanno a formare un tutt’uno equilibrato e omogeneo. L’uso del growl (più raro lo scream) appaiato alla voce pulita e addirittura al violino, unitamente al gioco fra i generi, li rendono difficili da etichettare, dunque.
L’album di debutto ha però visto la luce dopo alcuni anni di lunghe traversie causate dal mancato visto al chitarrista solista della band, che si è ritrovato costretto a tornare in Francia, suo paese di origine. A seguito di una battaglia di 13 mesi con il Dipartimento australiano per l'Immigrazione, nonché un appello per raccogliere firme da parte del settore musicale, nell’ottobre 2011 al musicista è stato infine concesso il visto a lungo termine per vivere e lavorare in Australia, ed ecco che la band è stata in grado di uscire con l’album.
Portal Of I è stato prodotto dal violinista (nonché interprete delle sezioni vocali ‘pulite’) Tim Charles, co-prodotto e curato da Troy McCosker ai Pony Music Studio di Melbourne, e mixato e masterizzato in Svezia ai Fascination Street Studios di Jens Bogren (Opeth, Ihsahn, Katatonia, Devin Townsend). Sette brani per quasi un’ora e un quarto di durata complessiva; lunghe sezioni strumentali, testi verbali oscuri, in cui tuttavia non si respira l'aria di 'negatività' cara al black, semmai una sorta di paganesimo visionario, interpretabile a piacimento dell'ascoltatore. Uscito il 7 maggio scorso in Australia e atteso per l’11 giugno nel resto del mondo (ma la versione digitale è già disponibile su iTunes), arriverà in Italia grazie a code666 (Aural Music Group). Ma veniamo all’ascolto.
In Tapestry of the Starless Abstract, una mitragliata speed ci introduce a quello che con i suoi oltre 12 minuti è uno dei brani più lunghi e complessi dell’intero lavoro. Un ‘arazzo’ di suoni e colori, atmosfere e valori ritmici sempre differenti; il prevedibile passaggio fra le sezioni più ariose e distese, perlopiù guidate dalla chitarra solista, e quelle più cupe e aggressive in growl (e scream) ben si affianca ad alternanze più insolite come l’interludio progressivo della chitarra acustica e l’episodio jazz a opera del basso. Il tutto strutturato in modo consequenziale, come in una suite multi sezionata di rock progressivo.
Xenoflux, 10 minuti e rullata iniziale. Ci risiamo? No. L’atmosfera è completamente diversa. Le chitarre sono più sporche, così come il violino, e il growl domina. Aggressiva e feroce, ossessiva ma non ripetitiva. Un ossimoro? Di nuovo no, dato che il tormento viene ogni volta proposto con un organico e idee diverse; a circa metà brano, quando la tensione si allenta, è per esempio un arpeggio di chitarra non in distorsione in mezzo al quale si intromette pian piano il violino a cullarci. Tanto che, quando nel finale l’organico si amplia di nuovo fino a portarci alla brusca conclusione, ci accorgiamo con sorpresa che i dieci minuti sono già passati.
Of the Leper Butterflies: 5 minuti. Si parte con la jazz fusion. Stavolta non ci risiamo di sicuro. L’episodio spezza l’andamento del lavoro e concede qualche attimo di riposo fra la brutalità precedente e quanto verrà. Dopo una prima parte soft interamente strumentale, il growl, l’elettrico e la velocità ci vengono di nuovo sbattuti in faccia, pur mantenendosi su piani relativamente più melodici, grazie al growl che resta sullo sfondo facendo quasi solo da accompagnamento alla voce pulita in primo piano. La terza parte riprende e quasi sovrappone in un’unica sezione i due ambienti evocati in precedenza.
Da qui in avanti sarà tutto di nuovo interminabile, ma non ce ne accorgeremo, sempre grazie alla contaminazione estrema fra generi. In Forget Not (a proposito, "ne obliviscaris": lat. "affinché tu non dimentichi"; "per non dimenticare"), dopo un preludio della chitarra acustica e del violino, ci ritroviamo al limite col post grunge/alternative rock, dove a cantare però rimane il violino; l’alternanza progressiva fra acustico ed elettrico ci porta fino a una sezione in cui il violino cede il posto alla voce pulita, che domina sul growl (fermi restando metal estremo e jazz che fanno capolino qua e là, soprattutto nel finale). Sembrerebbe impossibile per un intrico simile, ma le melodie sono efficaci e orecchiabili a partire da un primo ascolto.
Un fraseggio mefistofelico di violino si appaia alla chitarra flamenco in And Plague Flowers The Kaleidoscope, mentre l’elettrico si combina alle soluzioni ritmiche più disparate. Il growl e la voce pulita si intrecciano in maniera equilibrata (da sottolineare il fatto che la voce pulita ha timbriche eleganti e delicate, piacevolmente complementari a un growl mai monocorde, ma espressivo, e che qui, per esempio, scivola talvolta nello scream), lasciando cantare anche la chitarra solista, mentre quella ritmica sfoggia riff serrati e martellanti. As Icicles Fall è invece un brano di rock melodico che si sviluppa su tempi moderati, guidato dalla voce pulita, che più avanti cresce in velocità e ci rituffa in una miscela di violino e aggressivo growl (tengo comunque a precisare che gli sbalzi non sono mai stranianti ma l’impasto, pur se la forma non è definita, è uniforme).
Nel finale, Of Petrichor Weaves Black Noise (il petricore è il profumo della pioggia sulla terra asciutta), tutto l’organico torna per salutarci in ogni sua molteplice sfumatura e soluzione, preferendo tuttavia - fatta eccezione per alcuni brevi inserti rapidissimi - valori ritmici poco sostenuti. In chiusura, addirittura un retrogusto di polifonia sacra. Un gioiello di brano che potrebbe configurarsi anche come ottimo biglietto da visita.
Una pecca dell’album avrebbe potuto risiedere nell’esigenza di ascoltare più volte l’intero lavoro per essere compreso appieno, ma il ‘diverso’ incuriosisce così tanto da spingere istintivamente verso un nuovo ascolto. Consigliatissimo a chiunque sia convinto che l’unico futuro possibile per la musica sia la contaminazione estrema.
Io scommetto che prossimamente ne sentiremo molto parlare...
Line-up
Xenoyr – voce (growl)
Tim Charles – violino e voce (pulita)
Matt Klavins – chitarra
Brendan 'Cygnus' Brown – basso
Benjamin Baret – chitarra solista
Nelson Barnes – batteria
Per aggiornamenti: www.facebook.com/NeObliviscarisBand
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