Molto tempo prima di morire, con i diritti sopraggiunti dal successo de L’Onda , Morgan Perdinka aveva acquistato una villa a picco sul mare. Non aveva alcun bisogno e non avvertiva la mancanza di un buen retiro. Si era solo incaponito per una stupidaggine suggeritagli dalla noia di vivere e dall’angoscia di perdere la creatività. Su qualche giornale aveva letto che un ex-attore comico, riciclatosi in scrittore di psychothriller, si era lanciato nell’acquisto di una scogliera, nei cui anfratti, come per incanto, erano cominciate a spuntare varie tane per ricchi e viziati rampolli di nobile casata, con relativo seguito di concubine. Ma si trattava del classico caso di pessimo sangue di parvenu, che non accenna mai a mentire.
Ma lui non c’entrava niente con le esibizioni estemporanee di liquidità in eccesso. Non era mai stato ricco, non gli importava nulla di esserlo. Badava soltanto a essere sufficientemente anormale in un ambiente di dementi. Non sopportava quasi nessuno dei suoi colleghi. Personaggi che ponevano solo se stessi al centro dell’universo. Che si facevano di coca o si massacravano il fegato di alcool solo per apparire maledetti. Gente che non ti chiedeva mai: - Come cazzo stai, amico? Sai, ha una faccia da paura -, ma esordiva con -Cosa cazzo stai scrivendo? -, per poi passare, senza lasciar tempo a una risposta, a: -Sai, ho appena venduto i diritti cinematografici a De Laurentis -.
Lui non c’entrava niente neppure con gli scrittori.
Scriveva perché si sentiva inseguito.
E non si sarebbe mai sognato di farsi rappresentare da un agente letterario. Per quei tre o quattro che aveva conosciuto dell’ambiente, si sentiva strasicuro di odiare la categoria. Capivano più di internet banking che di letteratura, e i più si maceravano nelle frustrazioni tipiche degli scrittori mancati. Un suo amico, sceneggiatore italo-americano, che aveva lavorato per Cronenberg e Daniel Mann, un giorno al telefono da Los Angeles lo aveva convinto che “il miglior agente è quello morto” e lui aveva fatto sua quella massima, a sua volta rubata agli yankee sterminatori di indiani. Evitava gli agenti come gli acini di limone nella macedonia, anche perché se lo poteva permettere.
Però un giorno aveva conosciuto Cassandra Marsalis.
Cassandra non era solo una agente, ma soprattutto l’idea tipicamente maschile di femmina materializzasi per incanto nel mondo reale. Alta, mora e corvina, sempre in tailleur nero corto sopra il ginocchio, tacco da 12 centimetri e autoreggenti, non aveva mai implorato nessuno dei famosi di far parte del suo parco autori. Nel suo studio non possedeva neppure il telefono fisso.
Cassandra non telefonava mai.
A Cassandra pochi eletti riuscivano a telefonare.
Quelli che ne conoscevano il numero (alternativo) di cellulare.
Agli altri era solo concesso di sbirciarla sui giornali.
A Cassandra nessun aspirante scrittore poteva proporsi con l’intenzione di farsi rappresentare.
Era lei che snidava quelli dotati del vero talento: l’idea, lo stile, l’indefinibile meccanismo che ti butta dentro a pagina 3 e non ti concede tregua sino alla riga finale.
Anche lei se lo poteva permettere. Rappresentava in Italia gli scrittori americani più venduti (pensate a un americano da alta classifica, tra il legal thriller e il new gothic horror, e state pur certi che in Italia lo gestiva l’agenzia Marsalis) e i più clamorosi casi editoriali autoctoni delle ultime stagioni (pensate a uno a caso, e non sbaglierete comunque).
Quando si erano conosciuti all’inaugurazione di una nuova casa editrice in Brera, lui si era abbandonato per un minuto abbondante a fantasie sadomaso, ma dopo l’aveva scantonata con determinazione per non confondersi con la massa di tampinatori e questuanti che ne richiedevano le attenzioni, sperando di poter pubblicare un libro tirato in 50.000 copie. Lei, per un secondo, gli aveva letto negli occhi la sostanza delle sue fantasie e a fine festa non gli aveva permesso di abbandonare la scena.
Quando, a mezzanotte più o meno in punto, si erano amati nello studio di lei sino a lasciarsi reciproci e profondi segni sui corpi, in ambedue era scattata una torbida malia, che nulla aveva a che fare con l’incontro delle reciproche professioni.
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