I paladini indiscussi storici del Symphonic Black Metal sono ridiscesi in campo, lasciandosi alle spalle sia le critiche per la defezione di membri insostituibili come Mustis e Vortex, sia le obiezioni riguardanti la virata commerciale degli ultimi dischi.
Proprio agli inizi di quest'autunno i Dimmu Borgir hanno rilasciato per la Nuclear Blast il nono studio album, Abrahadabra.
Questo nuovo lavoro pare fare qualche passo indietro: tralascia i territori sperimentali di matrice thrash di In Sorte Diabuli e ritorna alle arie più sinfoniche di Death Cult Armageddon e Puritanical Euphoric Misanthropia.
Stavolta, il titolo, pur rifacendosi all'occultismo, è composto da una sola parola, e non dalle solite tre con cui ci hanno abituato.
E' la parola magica con cui i Dimmu Borgir vogliono generare la rifondazione della formazione, ormai concentrata in solo tre menti pensanti: quella del cantante Shagrath e quelle dei due chitarristi Galder e Silenoz.
“Abrahadabra” è anche l'espressione spesso pronunciata da Aleister Crowley, qui celebrato come personaggio rivoluzionario per essere stato uno dei primi a studiare e a comprendere le scienze e le arti occulte.
Nonostante sia incentrato sulla sua figura e le sue opere, Abrahadabra non vuole essere un concept album: ogni brano contiene simboli, soggetti differenti e le storie non sono connesse fra loro.
Tutt'al più, volendo individuare un anello d'unione tra le dieci tracce, possiamo scorgere frequenti riferimenti alla magia come metafora di potenza, e una sorta di protagonismo della band, dovuta alla sua totale identificazione in Crowley.
Una rifondazione che parte dal passato: dagli archetipi sinfonici e dai temi esoterici consueti, con cui la band ha plasmato il proprio sound; queste costanti, però, vengono elaborate in termini di produzione ed esecuzione, in maniera tale da dare suono a quella parola magica, simbolo dell'ambita potenza.
A livello operativo, tale risultato è stato raggiunto mediante la sostituzione di campionamenti e file MIDI, usati normalmente per "orchestrare" le mefistofeliche atmosfere, con le registrazioni avvenute in collaborazione con l'orchestra Kringkastingsorkestret (la Radio Orchestra Norvegese) e con il coro Schola Cantorum.
Abrahadabra appare, così, come il prodotto più sontuoso e dispendioso del combo norvegese, che può essere paragonabile a un vero e proprio melodramma.
Ma dietro a una mastodontica produzione orchestrale possiamo trovare un'altrettanta leggerezza con cui il trio si approccia al songwriting e una carenza di idee dal punto di vista stilistico.
Se da un lato gli elementi corali e orchestrali amplificano la fenomenalità dell'intento di potenza, dall'altro, a volte, mascherano imperfezioni nell'arrangiamento, spesso derivanti anche dall'assenza di Mustis durante la composizione dell'album.
Danno un assaggio del trionfo orchestrale tracce come l'intro prodigiosa, Xibir, che riesce a evocare forze soprannaturali dalle note orchestrali e dal canto corale; Born Treacherous, il brano più cattivo e riuscito del disco, in cui i tipici rintocchi black si legano alla melodia sinfonica nel vortice dei riverberi vocali, bramosi di oscurità; e Dimmu Borgir che mette meglio in vista lo spirito tenebroso dei componenti del gruppo.
A queste si aggiungono pezzi che esaltano lo sforzo orchestrale fino quasi a coprire la voce stessa di Shagrath (anche a cuasa della mancanza di una costante voce spalla, come era quella di Vortex), ripetendosi e diventando la parodia di se stessi; questo accade per esempio in: Ritualist, The Demiurge Molecule, e Endings and Continuations, che ambisce a concludere magicamente il ciclo, puntando molto sul duo vocale Shagrath-Garm (Ulver), ma che si dimostra un po' troppo impastata per gli ingredienti inseriti in eccesso.
Rimangono isolate da queste due categorie Gateways e Renewal che tentano di sperimentare due lati diametralmente opposti dell'animo norvegese.
La prima canzone ha un'enfasi totalmente gothic: tra cori celestiali, il bruto usurpatore personificato da Shagrath e l'eleganza disperata della voce femminile di Agnete Maria Forfang Kjølsrud (Animal Alpha) .
La seconda si presenta come un pezzo chitarristico, in cui impeto black e dosi di malvagità si condensano senza troppi orpelli sinfonici.
Nel complesso, quel che ricaviamo in questi cinquanta minuti scarsi d'ascolto è un disco, tutto sommato, gradevole, ma che si qualifica semplicemente come una riedizione dei classici Dimmu Borgir, rimaneggiati in virtù dell'osannata potenza, senza aggiungere niente di nuovo.
Inoltre, Abrahadabra, sebbene segni una fievole ripresa di stile dei Dimmu Borgir, si allinea comunque agli ultimi lavori per la ricerca del sound facile, rispettoso delle regole del mercato e che non valica i confini degli stilemi consolidati dalla band.
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