Dopo dodici ore di lavoro, in una serie di curve sulla Statale 64, un fanale sulla corsia opposta poco prima di mezzanotte non è che una moto, o motorino, o scooterone di qualche turnista sfigato, o amante che torna dalla moglie, o qualsiasi altra decina di individui con centinaia di motivi per essere lì in quel momento.
Non ci pensi.
È poco più che una stella spersa in cielo mentre la stanchezza e i pensieri ti portano a uno schifo di posto di lavoro su una schifosa terra.
È solo una cosa che attraversa il cervello senza lasciare traccia.
A meno che tu non abbia stretto la curva più del necessario oltrepassando la linea di mezzeria.
La cosa diventa importante quando ti accorgi che c’è un altro fanale con la lampadina bruciata accanto all’altro. Dunque, non si tratta di una moto, di un motorino o di uno scooterone, e a quel punto nemmeno ti frega più se il tipo che gira con un fanale sì e uno no sia un operaio o uno stallone da letto.
Ti importa solo che hai stretto la curva e che quella macchina con la lampadina bruciata ti prenderà in pieno.
Ma quando ti accorgi di tutto questo, e sto parlando di un secondo, le lamiere si sono già incontrate, il tuo corpo si è già spinto in avanti, la testa è già finita sul volante e mentre tutto inizia a ruotare, speri che il rumore del metallo, l’odore di ferro nel naso e le urla siano qualcosa che sta accadendo a qualcun altro.
Purtroppo, questa cosa non attraversa il cervello senza lasciare traccia; ti prende a sberle. Una dopo l’altra, senza pausa. Fino a quando la macchina non smette di rotolare sulla terra coltivata a barbabietole e pensi di essere morto o esserci molto vicino, perché tutto si fa sempre più nero. Non perché è notte, ma perché sei così intontito che pensi di fare volentieri altre due ore di straordinario piuttosto che startene rivoltato lì dentro.
Poi non pensi davvero più a niente. Arriva solo il momento di chiudere gli occhi.
A me successe così quella notte di giovedì 16 luglio. Non è detto che sia uguale per tutti.
Anzi, quando riaprii gli occhi la realtà era ben lontana dal più brutto degli incidenti, ma me ne sarei accorto di lì a poco, per quanto il tempo in quel posto non esista nonostante le lancette degli orologi continuino a girare.
Ero a testa in giù, legato ancora alla cintura della mia Panda. Il sangue mi colava dalle narici finendomi dentro gli occhi. Chiusi le palpebre diverse volte, poi ricordai di avere le mani e di poterle muovere.
Mi pulii il viso. C’era buio. Per uno strano scherzo del destino, un fanale della Panda illuminava le barbabietole del campo fin dove poteva. L’altro era defunto o sparso in centinaia di pezzi sul tragitto che dalla strada mi aveva portato dopo chissà quante capriole a far compagnia alle larghe foglie verdi.
Un solo fanale.
Chissà il tipo nell’altra auto. La mia era, per quel poco che potevo vedere, un accrocco di metallo e pezzetti di vetro.
Appoggiai una mano sul tettuccio e slacciai la cintura. La forza nel braccio era quella che era e caddi a terra. La testa colpì la lamiera e il collo si piegò in maniera innaturale. Mancò poco che me lo spezzassi.
Scivolai dal finestrino strisciando al suolo. Il sangue si mischiò alla terra. Respiravo a fatica. C’era odore di metano. Mi alzai di scatto per la paura che tutto potesse esplodere da un momento all’altro.
La pressione scese ai talloni. Vidi di nuovo tutto nero e crollai. La bocca mi si riempì di terra. Mi ripresi subito. Sputai e mi risollevai sulle ginocchia. Respirai il ferro e l’umido della notte.
Provai a rialzarmi, più lentamente. Barcollai ma rimasi in piedi.
Ero a posto. Non avvertivo alcun dolore, il sangue aveva smesso di colare dal naso e la testa non girava più.
L’oscurità era totale. La luce di ritorno del fanale mi permetteva appena di distinguere le grigie increspature del terreno e parte della macchina maciullata.
Cercai il cellulare nella tasca. Ravanai inutilmente nella stoffa interna del jeans. Le dita incontravano solo sassolini, o pezzi di vetro e terra. M’infilai di nuovo nell’abitacolo scandagliando alla cieca con le braccia tese e i palmi aperti.
Vetro, stoffa, terriccio. Un paio di custodie di cd. Trovai la cuffia dell’auricolare. Non ricordavo di averlo collegato dopo essere entrato in macchina. Provai a tirare il filo a mo’ di lenza, sperando di trovare attaccato all’amo un pesce della specie GSM.
La pesca fu infruttuosa. Le dita, alla fine, toccarono solo il connettore.
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