Ciao Marco, graditissima presenza sulle pagine di Horror Magazine dalle quali ti diamo il benvenuto. Tu e tuo fratello siete amati principalmente dal pubblico appassionato al cinema e alla TV “di genere” e avete anche una discreta produzione horror alle spalle, ormai. Cosa vi ha spinti a intentare questa “causa romantica” nei confronti di questo tipo di fare cinema e TV? Quali sono le tue radici in questo senso a partire dall’infanzia?
Mi piace la definizione “causa romantica”, in effetti descrive la nostra piccola lotta personale. Quello che ci ha spinti, o meglio che ci spinge, è proprio il cuore: io e mio fratello siamo in lotta con il mainstream della produzione cinematografica e televisiva italiana perché dà poche possibilità (a quelli come noi) di fare quello che ci piace, che guarda caso è il cinema di genere. Il “genere”, che è un termine freddo che forse non descrive benissimo ciò di cui stiamo parlando, è da sempre la nostra passione, in tutte le sue forme, dal Cinema alla TV, dai videogiochi ai fumetti, fino alla letteratura, passando per quasi tutte le altre forme d’arte dove il genere, quello vero, riesce a esprimersi (Musica, Teatro, etc.). Quindi, i Manetti fin da bambini: non esclusivamente “cinefili” ma appassionati di “genere”; forse, di fughe dal reale.
Siete stati talvolta criticati per scelte stilistiche o “citazionistiche” che, per i critici legati principalmente all’ambiente mainstream, sono difficili da affrontare semplicemente per quello che sono (anche, forse, con un po’ di snobismo). Come ti rapporti a questo mondo?
E’ una storia lunga e complessa, cerco di sintetizzare. La citazione è una forma di omaggio e, nei nostri lavori, in effetti, qualche omaggio, ogni tanto si trova, ma in misura infinitamente minore di quello di cui a volte veniamo accusati. Questo non significa che pensiamo ci sia qualcosa di male nell’omaggiare ciò che si ama come alcuni nostri detrattori (chissà perché) sembrano pensare, ma spesso, nei nostri lavori, si scambiano per citazionismi altre due cose.
Primo, siamo registi di “genere”, e il genere, lo dice la parola stessa, per semplificare il suo messaggio fa uso di alcuni codici. Noi facciamo uso di questi codici senza “citare”, ma solo facendo quello che altri in precedenza hanno fatto. In un western, per esempio, un signore seduto da solo in un tavolo remoto di un saloon col cappello calato sugli occhi è quasi sicuramente un pistolero. C’è un legame logico fra il saper usare una pistola e sedersi nell’angolo remoto di un saloon da soli col cappello calato sugli occhi? No. Ma questo appartiene al codice del Western, serve, credo, a poter approfondire certi argomenti senza dover lasciare troppo spazio a spiegazioni: se ha il cappello calato spara bene, non ho troppo bisogno di spiegarlo. Oppure è solo figo, ma a noi piace comunque. Di certo, non è una citazione.
Secondo, a noi piace raccontare i nostri personaggi nel modo più vero possibile, cerchiamo di farli appartenere ai vari insiemi culturali a cui appartengono le persone vere. Per noi, ad esempio, Gargiulo, l’amico di Coliandro, è un appassionato di fantascienza, e se ha una maglietta di Star Trek non è che stiamo citando la serie di fantascienza (di cui non siamo neanche grandi fan), ma raccontando Gargiulo. Per esempio, sempre in Coliandro, abbiamo pensato che il commissario De Zan abbia una predilezione per i dipinti di scuola napoletana e ne abbiamo appesi un po’ nel suo ufficio; perché in questo caso non siamo stati accusati di citazionismo e in quello di Star Trek sì? A volte è come se l’Italia dei fan, che pure è così presente e numerosa nel nostro paese, non si possa raccontare se non con velleità citazionistiche. Probabilmente non fa chic.
In questi giorni, purtroppo, siete saliti alla ribalta delle cronache per l’inattesa sospensione della serie TV “L’ispettore Coliandro”. Lo zoccolo duro dei fan si è mobilitato sono state aperte petizioni, e tutti sono rimasti un po’ perplessi di fronte a questa decisione. Si trattava di una delle fiction più seguite della RAI e, dato che gli episodi erano già stati in parte girati, tutti ci siamo chiesti come mai la motivazione ufficiale fosse il taglio del budget. Che peso avrebbe potuto avere la messa in onda, quando ci sarebbe stata la gara fra gli spot pubblicitari? Come si sono spiegati, di preciso? E’ una decisione definitiva?
La RAI rispetto a Coliandro si è comportata con una violenza senza senso, di cui non riusciamo a darci una completa spiegazione. Oh Dio, di spiegazioni ne abbiamo avute molte, ma nessuna sembra avere un senso. Tagliare per motivi di budget una serie che va benissimo e di cui si erano già prodotte due puntate con la spesa almeno di un paio di milioni di Euro è un nonsense. Nonostante alcune opinioni che girano in rete, siamo convinti che non si tratti di una questione di censura, ma più semplicemente di superficialità, o al massimo perché in necessità di taglio di spese, invece di tagliare chi produce meno, si taglia chi è meno “ammanicato”. Ma siamo convinti che questa decisione non possa essere definitiva. E’ troppo insensata. Il fatto che la gente si sia fatta sentire per noi è stato bellissimo. La cosa strana è che, fino a questo punto, sorprendentemente, il nostro rapporto con la RAI era stato ottimo e lo testimonia l’evidente libertà con cui sono state realizzate le puntate di Coliandro.
Avete dichiarato di non aver mai avuto problemi di censura per Coliandro. La domanda è sicuramente imbarazzante, ma visto che per questa nuova serie era prevista una puntata - già girata - con l’horror metal band dei Death SS, il dubbio sorge spontaneo...
Assolutamente questo problema non si è posto. Tra l’altro, prima del blocco, la puntata con Steve Sylvester e i Death SS era stata largamente apprezzata dalla RAI. Fidati, la censura non c’entra con questo assurdo blocco e non lo dico per diplomazia, figuriamoci, non sarebbe da noi.
A proposito di musica... La vostra gavetta è partita con i videoclip. Ne avete girati oltre cento per artisti molto diversi fra loro. Ed è proprio grazie ad Alex Britti, per cui avete girato il video di “Mi piaci” che si può dire sia nata “Zora la vampira”. Puoi raccontarci la storia?
Grazie ad Alex Britti abbiamo incontrato Carlo Verdone. Zora la vampira era un nostro progetto che esisteva da ben prima il nostro incontro con Carlo. Anzi, il progetto era già in uno stato piuttosto avanzato con un altro produttore. Verdone, nostro mito, anche se non di genere, fin da bambini, aveva scritto un’idea per il video di “Mi Piaci” di Britti. Noi, registi da sempre dei suoi video, dovevamo dirigerlo e Carlo avrebbe anche recitato in una parte. Durante gli incontri con Verdone per la lavorazione del video è nato un feeling e lui ci ha chiesto se avevamo una storia, perché gli sarebbe piaciuto produrre un nostro film. Altre storie non lo interessavano, ma quella di Zora lo entusiasmava. Ci è sembrata una grande occasione e abbiamo chiamato l’altro produttore per affrancarci da lui e farlo con Verdone. Chissà, forse abbiamo sbagliato. E’ un peccato che dopo il flop al botteghino anche il feeling umano con Verdone sia sparito. Misteri di chi vive nel mainstream…
Sempre in considerazione della diversità fra gli artisti per cui avete girato, fra gli interpreti di “Zora la vampira” c’era Tormento dei Sottotono. Poi i Death SS ne “L’ispettore Coliandro”. Fra l’hip hop e il metal passa un abisso enorme, ma questi personaggi sono legati dal fatto di appartenere al mondo dell’underground (o almeno così viene etichettato in Italia), del ‘culto’, di una cultura musicale diversa da quella sponsorizzata dalle majors, anche perché rispecchia molto più da vicino quelle che sono le tendenze delle sottoculture giovanili. Rappresenta solo i vostri gusti o anche questo fa parte della “causa romantica”? Arte “di genere” non solo cinematografica e televisiva, ma anche musicale?
Concordo sulla definizione “arte di genere”, per quanto suoni male. Io e Antonio siamo da sempre appassionati di musica Metal e Black, per quanto possano sembrare due generi musicali lontani anni luce. Entrambi i generi ci piacciono in molte delle loro molteplici forme. Quindi è ovvio che la musica che ci piace torni spesso nei nostri lavori. Non siamo però, rispetto alla tua domanda, “underground” per forza, per vezzo. Anzi questa è una cosa che ci starebbe anche un po’ sul cazzo. L’”Underground” è bello fino al momento che è una condizione, se diventa una scelta è una scelta snob e noi non siamo snob.
Dopo “Piano 17” (che, sebbene sia un thriller, è una pellicola molto cupa e claustrofobica) avete dichiarato che, per quanto riguardava l’horror, preferivate produrlo (“L’Armadio” e “Il bosco fuori” di Gabriele Albanesi). Poi, però, è arrivato “Cavie”...
Di certo non escludiamo l’horror dai generi che potremmo dirigere. L’horror, da spettatori, è probabilmente il nostro genere preferito. E’ solo che a volte ci siamo chiesti se due tipi piuttosto solari e autoironici come siamo io e Antonio possano avere al 100% le corde dell’horror. Ma alla fine è una domanda stupida, perché se vai a vedere fra i grandi maestri dell’horror è pieno di gente come noi. “Cavie” non è esattamente un horror, lo definirei piuttosto un survival horror, tipo un film di Zombie per capirci. Tematiche e quantità di sangue da horror in un film che è più “action” che altro.
Quali sono i tuoi riferimenti letterari e cinematografici per quanto riguarda specificamente l’immaginario orrorifico? Scrittori, registi, titoli, band, ma anche figure, come quella del vampiro utilizzata in “Zora”... oppure, ricordo - fa i tanti - il poster dei Misfits sulla porta della ragazza che interpreta la figlia di Massimo Ghini in “Piano 17”...
Questo è il tipo di domande alle quali è più difficile rispondere. Contemporaneamente sono le più belle, perché bello sarebbe riuscire a parlare delle proprie passioni. Ma come si fa? Come si fa a fare una lista delle proprie passioni senza il terrore di lasciare fuori qualcuno o qualcosa di importantissimo? E’ troppo difficile, impossibile. Abbiamo amato l’horror in tutte le sue forme musicali, cinematografiche, letterarie e fumettistiche. Da bambini eravamo assidui lettori del “Corriere della Paura”, guardavamo i film di Dario Argento e passavamo notti insonni. I Death SS come i Black Sabbath, i Blue Oyster Cult e più avanti gli Slayer o i Cradle of Filth sono alcune delle nostre grandi passioni musicali. Ma anche l’horrorcore (branchia horror dell’Hip Hop) dei Gravediggaz e dei Geto Boys. Negli anni 80 l’horror splatter ironico di Peter Jackson e Sam Raimi ci ha formati e ci ha reso in gran parte i registi che siamo oggi. L’adolescenza l’abbiamo passata scambiandoci i romanzi di Stephen King e la mitologia di Lovecraft è incisa nelle nostre anime. Io sono stato, negli anni d’oro del gioco di ruolo, uno dei grandi master romani del gioco a ispirazione Lovecraftiana “Call of Cthulhu”. L’horror spaziale di Alien è una nostra continua fonte di ispirazione. Per non parlare dello splendido video gioco “Dead Space” di cui attendo con ansia il sequel. Ma se si parla di videogiochi non si può lasciar fuori “Resident Evil”, “Silent Hill”, “Manhunt”… Oh Dio, vedi? Cosa ti dicevo? Quanti ne sto lasciando fuori? Che angoscia!
Ti capita spesso di litigare con tuo fratello per le scelte da compiere? In fondo, lavorare in coppia è già difficile; fra fratelli poi, qualche ringhiata ogni tanto ve la farete...
Non sai quante… Ma poi si fa pace in fretta…
Progetti futuri? Ci sarà ancora un po’ di horror?
In questo momento stiamo lavorando a una serie di progetti di cui un paio di matrice decisamente horror. Insomma, è probabile, ma non certo, che il prossimo film dei Manetti sia proprio un horror!
Grazie Marco, sei stato davvero molto disponibile. In bocca al lupo per tutti i vostri progetti e a risentirci presto sulle nostre pagine, ci auguriamo!
Grazie, è stata una bella chiacchierata con domande a cui fa piacere rispondere. Per Horror Magazine sempre a disposizione, sperando che la prossima volta sia per parlare del nostro tanto agognato horror!
Marco Manetti (Roma, 15 gennaio 1968) e Antonio Manetti (Roma, 16 settembre 1970) sono due registi e sceneggiatori italiani. I due fratelli sono meglio noti come Manetti Bros. Debuttano nella regia dirigendo nel 1995 "Consegna a domicilio", episodio del film "DeGenerazione". Nel 1997 dirigono un film prodotto dalla Rai, "Torino Boys", che narra le avventure di un gruppo di nigeriani. Il film vince il Premio speciale della giuria al Torino Film Festival e lancia i due fratelli come registi emergenti. Nel 2000 dirigono "Zora la vampira", interpretato tra gli altri da Carlo Verdone. Nel 2005 dirigono un thriller costato 70.000 euro e girato in digitale ambientato per la maggior parte dentro un ascensore, Piano 17. Nel 2009 è stata la volta del survival horror "Cavie". Per la televisione dirigono una serie di cortometraggi per il programma "Stracult", le tre stagioni de "L'ispettore Coliandro" e tre puntate della serie poliziesca "Crimini". I Manetti Bros. hanno diretto più di cento videoclip, per cantanti come Piotta, Alex Britti, Mietta, Mariella Nava, Max Pezzali, e per gruppi come i Flaminio Maphia, gli Assalti Frontali e i Tiromancino. Per il web i due fratelli hanno girato una serie di corti da scaricare, intitolati "SCUMS - The web series".
1 commenti
Aggiungi un commentoBella intervista. Sana, fuori dai denti. Vera.
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