Il film descrive lo sbarco degli alieni sulla Terra e del loro isolamento in un ghetto in Sud Africa. Gli alieni, chiamati "Non Umani", oppure, in modo volutamente sprezzante “Gamberoni”, vengono controllati dalla Multi-National United (MNU), una compagnia il cui principale obiettivo è quello di sfruttare la tecnologia aliena.
Contaminazione. E’ questa la cifra espressiva peculiare di questo film che intreccia il genere fantascientifico con quello horror e con altri ancora, di cui parleremo tra poco. Una contaminazione che ha inoltre l’effetto non secondario di rilanciare alla grande la “science-fiction” attraverso le geniali, spiazzanti intuizioni di un giovane regista sudafricano pieno di inventiva, che ha alle spalle nientemeno che la potenza visionaria (ed economica) di Peter Jackson. Neill Blomkamp elabora un’opera originale sia mediante un’accorta manipolazione della tecnica audio-visiva, sia attraverso la scrittura (sua e di Terri Tatchell), sia nella scelta di attori non necessariamente famosi, ma bravi e ben diretti: l’obiettivo della cinepresa sui protagonisti è sempre preciso nel farne risaltare le performance espressive su un set polveroso e difficile (illuminato dalla fotografia saggiamente scabra e selvatica di Trent Opaloch). Blomkamp, a soli 30 anni, ci sorprende visivamente e concettualmente a partire dalla prima inquadratura, nella quale ci fa credere che il film sia semplicemente un mockumentary, cioè un collage frammentario di interviste al protagonista, Wikus Van De Merwe (un ispiratissimo Sharlto Copley), nonché a varie autorità, scienziati e gente comune, che commentano le vicende che stanno accadendo nel Distretto 9 (un esplicito riferimento al famigerato “District 6” in cui erano confinati i neri, durante il periodo dell’apartheid). Tecnicamente il film è costruito come una docu-fiction, ma la maestria innovativa del regista sudafricano sta tutta nel “contagiare” questa modalità, con altre lunghe sequenze che sono puro film narrato. In questo senso District 9 prende le mosse da Cloverfield (2008), ma ne elabora lo stile e lo spinge oltre, facendone solo un pretesto, una base tecnica d’appoggio, per costruire un’opera assolutamente singolare, nella quale il filmaker trova le immagini e il linguaggio giusti per farci riflettere sul tema del razzismo, della ghettizzazione dell’extracomunitario, del Potere come veicolo di violenza a scapito del “diverso”, in questo caso gli alieni atterrati in cerca di aiuto. E lo fa in modo poetico, rappresentando un problema politico e sociale purtroppo molto vivo oggigiorno, senza mai perdere di vista il fatto essenziale che sta raccontando una “storia”. In Cloverfield è la cinepresa amatoriale a essere il vero fulcro di tutta l’architettura visiva del film (insieme alla lenta exposure del mostro); qui invece le riprese finto-televisive, o la cinepresa digitale del cameraman militare servono solo a farci partecipare alla storia. Ma è la storia stessa che conta, non la tecnica. Siamo infatti subito partecipi delle vicende umane di Vikus, infettato da un misterioso virus alieno e siamo trasportati freneticamente con lui in quel “Truman Show” capovolto, infernale, organico-mutante, in cui si trasforma ben presto la sua vita. Il merito di tale epifania cinematografica è del regista, ma senz’altro anche del montaggio di un encomiabile Julian Clarke. Sono presenti anche incursioni nell’horror, con sequenze ben curate e inquietanti al limite dello splatter, con alcuni rimandi subliminali a [Rec] (2007) di Balaguerò e Plaza (vedremo infatti unghie che si staccano dalle dita sanguinanti, autoamputazioni senza anestesia, e schizzi di materia organica sulla lente dell’obiettivo, tutti elementi che non potranno che essere ben accolti dagli amanti del genere). Ben condotte anche le scene d’azione, soprattutto nella concitata ultima parte di metraggio, che assumerà quasi la forma di un film di guerra (altra azzeccata dose di contaminazione generativa). Ma è sul piano della comunicazione emozionale che il film di Blomkamp si appresta diventare un vero cult. Davvero, guardando Vikus, nelle ultimi commoventi scene del film, pensiamo a Blade Runner (1982): anche il nostro eroe potrebbe infatti dire o pensare fra sé e sé la famosa frase del replicante Roy Batty-Rutger Hauer “Io ne ho viste cose che voi umani non potreste immaginarvi. Navi da combattimento al largo dei bastioni di Orione. E ho visto i raggi B balenare nel buio vicino alle porte di Tannhauser. E tutti quei momenti andranno perduti nel tempo… è tempo… di morire”. District 9: da non perdere.
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