Una panca semidistrutta è addossata al muro. In pochi istanti la sposto contro la porta, in modo da bloccare il passaggio. Faccio un baccano infernale, ma dal bagno non viene alcun rumore.
Mi appoggio contro il muro e respiro a fondo per sciogliere la paura. A un tratto sento uno scoppio sordo alle mie spalle, come se un budino gigante fosse esploso in mille bocconi spiaccicati. Viene dall’angolo più lontano, dove si era rannicchiato il vecchio.
Questa volta mi allontano, di corsa.
Il corridoio si srotola senza fine. Il volto del folle mi perseguita sui manifesti attaccati ovunque. Dopo aver voltato l’ennesima curva capisco di essermi perduto. È impossibile, eppure devo aver sbagliato a girare all’incrocio precedente.
Riprendo fiato, quando una voce mi assale da dietro. Mi volto e non devo avere il volto di una persona normale. Da una cabina di sorveglianza, incassata in uno slargo, vedo uscire un agente di polizia, un tizio enorme dalla faccia annoiata.
— Ehi, dove corre? Si fermi!
Obbedisco. L’eco dei miei passi ci mette un po’ a spegnersi. Il poliziotto si avvicina.
— C’è qualche problema?
Ha l’alito che sa di patatine e birra da quaranta centesimi a litro. Ed è la cosa più bella che mi sia capitata da questa mattina.
— Un Residuo.
Il poliziotto diventa serio, mi scava negli occhi.
— È nel bagno degli uomini, all’entrata — continuo. — L’ho chiuso dentro. È successo qualcosa di strano.
— Che cosa?
— Non lo so, mi ha minacciato, ha detto che stava male, poi sono fuggito.
Magari gli dovrei dire anche dello scoppio, ma mi rendo conto che già così faccio la figura del folle.
— Va bene — dice. — Si calmi, la situazione è sotto controllo. Ci penso io. In ogni modo, mi deve lasciare il suo nome, cognome e indirizzo. Sa, è per registrare la segnalazione.
Ripeto il mio nome, ma mi blocco sull’indirizzo. Il poliziotto si è accorto che qualcosa alle sue spalle cattura la mia attenzione. Si volta.
All’inizio mi sembra di avere la vista appannata, perché la persona che compare dalla curva del corridoio non ha contorni definiti. A dire il vero, non riesco neppure a distinguere gambe o braccia. A mano a mano che si avvicina il suo profilo rimane evanescente, eppure mi sento addosso quegli occhi aguzzi. Addirittura mi pare di vederli chiaramente, duri come spilli.
La strana cosa fluttua verso di noi, a tratti si sperde nell’aria, come il fumo di una sigaretta, poi torna visibile. È l’uomo che ho rinchiuso dentro il bagno. Ne sono sicuro.
— Ma che diavolo sta succedendo? — dice l’agente.
D’istinto mi allontano dal poliziotto, ma lui se ne accorge.
— Stai fermo lì, tu! La faccenda non mi convince! — dice.
Estrae la pistola e si muove verso la forma. Fa pochi passi e subito quella cosa schizza come un proiettile contro di lui.
— Fermati, bastardo — urla. Poi sento solo le sue grida di dolore.
Lo spettro è andato addosso all’agente. Gli è entrato dentro.
Il gigante con il distintivo si dimena come se stesse bruciando, mentre dal suo corpo spuntano le vaghe forme dello spettro, nebbia che si muove intorno a lui, attraverso di lui.
Il volto del poliziotto si sgonfia e il corpo si spreme in un secondo, come schiacciato da una pressa invisibile. Il sangue schizza fuori dalla bocca, dagli occhi, da mille ferite che si aprono sulla pelle.
Voglio vomitare, ma ho le viscere di pietra. Qualcosa, dentro, mi dice di scappare. Cerco di correre, ma faccio fatica a infilare un passo dietro l’altro.
Non so come, ma in qualche modo imbocco la strada giusta. Il tunnel che percorro sfocia nel corridoio principale. C’è ancora una curva da fare prima di giungere alla banchina. Dietro di me si alza una nota stridula e altissima. Mi volto un istante e scorgo nel buio del passaggio lo spettro biancastro che mi sta per raggiungere.
Quando arrivo vicino al binario, vedo la mia corsa che mi sta per lasciare. Le porte metalliche del treno si chiudono e i vagoni cominciano ad allontanarsi. In pochi istanti il serpente metallico si dilegua nel buio dei sotterranei, dimenticandosi di me.
Un pugno di passeggeri sono scesi dalla metro e si dirigono verso l’uscita. Un signore dai capelli brizzolati e immerso in un cappotto mi guarda storto, molto probabilmente pensa che sia un drogato. In effetti sudo a cascata e la mia espressione non deve ispirare molta fiducia. Vorrei dire qualcosa, urlare alle persone di scappare, perché c’è un dannato fantasma che mi insegue e succhia le vittime.
9 commenti
Aggiungi un commentoOttimo racconto. Complimenti. L'ambiente metropolitano mi ha sempre inquietato, per ragioni terra terra (paura di una aggressione) e per ragioni... non so... qualcosa tipo "Ultima fermata: l'incubo" di Castelli e Sclavi.
E poi perchè la metropolitana è una metafora dell'esistenza (addirittura!):
in metropolitana ci si sente vivi, in movimento, attivi, padroni della città... ma ci si può sentire anche schiavi, passivi, costretti su percorsi obbligati, insomma, morti viventi.
Ultime annotazioni: bella l'immagine dei pezzi di carne galleggianti nel catarro, geniale la zecca/parassita gonfia come una zanzara!
Un saluto.
L'idea è bella e ben sviluppata, complimenti! Però mi sembra che l'ultima parte del racconto, quella in cui dai voce al Reietto, sia troppo "esplicativa": guidi il lettore passo passo - e forse un po' troppo lentamente - nella comprensione della verità, mentre secondo me avresti potuto dare meno spiegazioni e lasciare qualcosa al ragionamento del lettore, visto che più o meno si riesce a intuire dove la storia voglia andare a parare... Insomma, verso la fine lo stile diventa un po' troppo didascalico, a scapito della narrazione vera e propria, però nel complesso è un buon racconto, che mi ha fatto riflettere molto e che ho letto con piacere!
L'ho apprezzato per 3/4
L'ultima pagina é quella che lascia più a desiderare.
Credo che non sempre di debba spiegare per forza il perché delle cose, soprattutto in un racconto breve che non vedrà un seguito (credo).
Non mi piace il dover spiegare il male come ineluttabile conseguenza di una società corrotta, dalla quale non si può prescindere per sopravvivere.
Passare dall'altra parte per sfuggire ad un limbo e cadere in un altro? Che senso ha? Non l'ho capito.
I racconti privi di logica, che puntano all'immaturità di chi si lascia spaventare da tutto ciò che è ingenua caricatura del vero orrore, costituito dal non voler guardare il Vero della pochezza intellettuale umana, non mi trasmettono altro che noia.
Forse la dimensione del racconto era troppo esigua per il progetto, da qui l'effetto "spiegone" di una rivelazione abnorme concentrata in poche righe. Temo del resto che la partecipazione al concorso imponesse un limite di caratteri: l'autore potrebbe essere stato costretto a sacrificare certi spazi.
A parte questo ho molto apprezzato il testo, sia per temi che per linguaggio.
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