Dove gli insetti vanno a dormire
Alessia si era già chiusa dentro casa e stava per entrare in cantina, quando sentì battere alla porta.
I colpi facevano tremare la serranda di ferro.
Salì al buio i gradini che portavano in soggiorno, due alla volta. Il marmo era freddo. Lei affamata e troppo stanca.
Altri colpi. Il muro intorno agli stipiti vibrò.
– Basta! – urlò Alessia. – Ti ho sentito!
Un ultimo colpo sbriciolò un po' di vernice e intonaco. Nell'oscurità la polvere scivolò frusciando dalla parete al pavimento.
Alessia si fermò.
Iniziò a tremare. Si allacciò in vita la vestaglia, tirando per bene i lembi. Incrociò le braccia sui seni.
– Che ci fai a quest'ora? Posso aprire? – chiese a pochi centimetri dalla serranda. L'odore del ferro le ricordò il sangue. Un brivido le corse dalla lingua fino alla bocca dello stomaco. Chiuse gli occhi.
– È ancora buio. – La voce di Stefano era ancora più flebile del normale attraverso la barriera di metallo.
– Sicuro?
– Sicuro.
– Ma sono... che ore sono?
Silenzio. Il rumore distante di pneumatici che rotolavano sulla statale. Gente che cominciava la giornata di lavoro.
– Le sette e un quarto.
– Più preciso!
– Le sette e... sedici in questo momento.
– Ma il tramontino di oggi dice alle sette e trentacinque.
– Appunto? Apri, no?
– Il primo chiarore...
– È nuvolo, c'è nebbia. Un tempo da schifo. – Stefano si sentiva appena. – Facciamo così – continuò. – Tu fai scattare le serrature. Io apro ed entro. Non te ne accorgerai nemmeno.
No, non se sarebbe accorta.
– Va bene, ma attento a quando tiri giù la serranda. Non mandarmela in pezzi.
– No.
Alessia prese alla cieca le quattro chiavi poggiate sul mobile dell'ingresso. Fece scattare una alla volta le chiusure.
Al quarto "tlac" ci fu uno spostamento d'aria e un frastuono di metallo. La chiave le volò via dalla mano e tintinnò sulle mattonelle.
Non aveva visto un filo di luce.
Ma Stefano le era accanto. Sentiva il suo calore. Gli toccò un bicipite attraverso il cotone della camicia. Forte. Vivo. Invincibile.
Stefano non la abbracciò.
– Stavi per portarmi via una mano.
– Devo parlarti. – Le parole le arrivarono fragili, incorporee.
Stefano accese una lampada nell'angolo del soggiorno. La lampadina a risparmio energetico si illuminò a fatica. Prese vigore secondo dopo secondo, come il sole al suo sorgere.
Alessia ebbe l'isitinto di proteggersi il viso. La lampada era innocua, ma non voleva che le ombre le delineassero le guance scavate dalla fame.
Stefano le allontanò le dita dalla faccia, in quel modo così delicato. Lei chinò la testa nella speranza che i lunghi capelli neri la nascondessero.
– Ho qualcosa per te.
Alessia vide le sacche di sangue nelle mani di Stefano.
Gliene strappò immediatamente via una.
Cercò di aprirla, di lacerarla. La plastica opaca si tendeva ma non cedeva.
– Aprila! – gli ordinò. Le mani le tremarono. Poi morse la sacca.
Il sangue le esplose sul viso. Le finì in bocca. Si versò sulla vestaglia e le colò tra i seni.
Bevve a collo. Il sangue traboccò sul mento.
Crollò sulle ginocchia. Si leccò le dita e i palmi. Si sfilò la vestaglia.
Con l'indice fermò le linee di sangue che le scorrevano sulla pelle, succhiandosi il polpastrello. Alcune proseguirono fino al pube sparendo tra le cosce.
– Alessia...
Buono. Sangue freddo, ma buono.
– Alessia! –
Stefano la guardava dall'alto. Grande, forte, con la sua voce impercettibile.
– Grazie – mormorò Alessia.
– Tirati su. Sei tutta sporca. Siediti.
Stefano si tolse la camicia e la stese sul divano. Prese Alessia per le spalle. La stretta era salda, ma non faceva male.
Alessia si rannicchiò sul cuscino.
– Scusa – disse.
– Da quanto tempo non mangiavi? – Le sedette accanto.
– Due giorni... Dove sei stato?
– A salvare il mondo? – Stefano allargò le spalle e rise piano. – O a provarci – aggiunse.
– Dove le hai prese?
– Ho sistemato un intero reparto dell'ospedale. Spostato attrezzature. Abbattuto muri. Avrei dovuto fare l'architetto.
Indicò l'ultima sacca rimasta.
– Mi hanno ripagato con queste.
– È sangue infetto?
– Probabile. HIV, epatiti... Loro lo avrebbero buttato. Ne ho altre.
Alessia si rilassò.
35 commenti
Aggiungi un commentoLa consapevolezza porta alla conoscenza. La barca della consapevolezza parte dal porto che ha sempre per nome Ignoranza, in qualsiasi città si trovi, sia essa la capitale dell'erudizione: Cultura, o la città dei sensi: Sentimento.
L'ignoranza è, invece, attitudine della cultura, quando questa è incapace di sintesi univoca non riuscendo a riunire tutti i dati dei sensi, siano questi quelli fisici che i risultati dell'intuire, sotto principi validi per tutto l'esistente e che derivano dal "Non esistente" che contiene in principio la manifestazione della realtà relativa. La consapevolezza ha bisogno, per essere, dell'azzeramento volontario dei saperi culturali. È per questo che tutti i Profeti sono illetterati.
Anche io, per citarne uno a casaccio, nel mio piccolo... ma lasciamo stare che non è il caso di spandere...
Non sono d'accordo.
La base di partenza di tutte le cose è il nulla, a meno che non si reputi che il tutto deriva da ciò che è già consolidato: l'utero per il neonato, la materia per il big bang.
Vorrebbe dire che tutto è sempre stato e sempre sarà, dunque la morte è effettivamente solo il punto di un cerchio, non il termine di una linea curva.
Devo rifletterci.
L'Assoluto non è il nulla. Il nulla, a rigore, è una concezione contraddittoria, perché se il nulla fosse... non sarebbe un nulla. L'Assoluto non è diviso, non ha limiti, non è sottomesso alla durata né all'estensione, e non ci sta nel suo riflesso come ogni contenuto non può contenere il proprio contenitore. Solo la negazione può dire dell'Assoluto, ma la realtà relativa è una negazione rispetto al "Senza limiti", quindi una negazione espressa da un'altra negazione rappresenta la migliore affermazione possibile.
L'istante atemporale che, moltiplicandosi nella molteplicità, dà origine all'illusione dello scorrere del tempo, è l'istante che denuncia l'Assoluto. Il punto privo di forma ed estensione che moltiplicandosi nella molteplicità dà i due punti che delimitano la retta che trascinata forma il piano che scorrendo comporrà il solido della tua forma denuncia l'Assoluto.
Io, che sono un grande composto da piccoli che mi costringono alle loro leggi... no, ora sto esagerando... sì okkey Padre... no, lo so che non devo dire troppo a questi terrestri... emminchiolina dai, non t'incazzare, lo sai che tanto non mi capiscono...
Mamma mia, cose di Altri Mondi!!!
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