1.La tua carriera letteraria abbraccia sia il mondo accademico con saggi e traduzioni di Lovecraft, sia la narrativa con romanzi ispirati al cinema dell'orrore e del fantastico. Come hai bilanciato queste due sfaccettature della tua scrittura e quali sono le sfide e le gratificazioni che hai incontrato nel passare dalla critica accademica alla creazione narrativa?

Sono due modalità (critica e narrativa) presenti in me come in ogni profondo lovecraftiano: mi affascinano le storie in cui i personaggi, oltre ad agire, si trovano a studiare fenomeni che vanno oltre il mondo quotidiano, e spesso questo fronteggiare l’ignoto, questa detection, prende proprio le forme di una indagine filologica: insomma i libri sono i primi a far paura, sono le prime porte cosmiche per derive anti-umane o sovra-umane (ne sa qualcosa il prof Armitage in Dunwich, intento a decifrare il disgustoso manoscritto cifrato di Wilbur…). I due filoni sono perciò fusi insieme: qualche gentile lettore del mio saggio Il linguaggio di Cthulhu mi ha detto che “è un saggio avvincente che si legge come un romanzo”; dall’altra parte, nel romanzo Melita. Signora dei simulacri ho inserito alcune pagine di critica cinematografica sui film del regista Davide Franco (protagonista della narrazione; suoi lavori come The Dead walk! sono ovviamente pseudo-film, alla maniera degli pseudobiblia). Penso di avere una visione enciclopedica, dantesca, della letteratura, per cui tutto si tiene, tutto è collegabile; è quello che ho cercato di fare nel volume CTHULHU (Carcosa Ed. Fantastiche) tessendo una rete di richiami lessicali e sintattici tra le varie parti del libro: il mio racconto inedito Sotto tutto risalendo, la traduzione di Call of Cthulhu di Lovecraft, il lessico lovecraftiano, un saggio junghiano su HPL: tutti si richiamano e riecheggiano nel libro. Per quanto concerne le gratificazioni: sul fronte critico ho avuto tanti bei riconoscimenti (la citazione sul numero di Linus dedicato ad HPL, l’inserzione della mia traduzione L’orrore a Red Hook nei 100 Libri che cambiano la vita dello speciale Robinson di Repubblica, o la stima via lettera di Sebastiano Fusco, ad esempio); sul fronte narrativo pochi ma buoni: la prefazione di Carlo Pagetti al mio Oltre il mondo. Con amarezza constato invece il totale disinteresse con cui è stato accolto il mio ultimo romanzo sperimentale Contro (2023), forse un’opera troppo azzardata.

2.Nel saggio "Cthulhu" descrivi un'analisi critica delle tecniche narrative, della sintassi e del lessico di H.P. Lovecraft. Quali sono alcuni aspetti fondamentali che emergono da questa analisi e come contribuiscono alla comprensione dell'orrore cosmico presente nelle opere di Lovecraft?

Un aspetto fondamentale è senz’altro, citando Lovecraft stesso, il “piecing together” di dissociate conoscenze (The Call of Cthulhu): qui l’autore ci dà una chiave di lettura importante non solo in quanto guida dell’indagine che percorre il racconto La chiamata di Cthulhu, ma che illumina le rivelazioni d’orrore di molti dei suoi protagonisti (basti pensare alla equipe di scienziati che, in At the mountains of madness, compone insieme i saperi disciplinari per tentare di comprendere la composizione biologica e l’origine degli “star-headed Old Ones”, i Vegli astrocefali): l’autore di Providence scrive lentamente, inserendo divagazioni della più disparata natura nelle sue narrazioni (l’archeologia architettonica di Providence in The Case of Charles Dexter Ward, le pagine di geologia di At the mountains, ma ad esempio anche nozioni sull’elettromagnetismo nel meno noto The Electric Executioner et c.): senza arrivare agli eccessi di Melville (il terrificante capitolo enciclopedico sui tipi di balena contenuto in Moby Dick, forse persino più noioso del catalogo delle navi dell’Iliade di Omero…), HPL usa le conoscenze scientifiche per mostrare fin dove l’uomo può spingersi; oltre, fino all’orrore del cosmo. Ma è proprio ricostruendo, mettendo insieme il nostro punto di vista scientifico ai fatti fantastici che ne esulano, che questo orrore irrompe ancor più devastantemente.

3.Nel tuo saggio critico "Il linguaggio di Cthulhu", come hai individuato e analizzato le tecniche narrative e il linguaggio utilizzati da Lovecraft per creare un senso di orrore alieno e per proiettare l'umano in un cosmo letterario mostruoso e potenzialmente infinito?

Come un chirurgo, ho dissezionato l’intero racconto Call of Cthulhu, dalla prima all’ultima parola, quale campione di studio privilegiato; poi ho confrontato le ipotesi filologico-critiche, ancora al livello sperimentale, con tutta la produzione di HPL (opera omnia narrativa), per identificare significati lessicali e strutture sintattiche ricorrenti. Verificate le ipotesi, ho stilato quelle che ho individuato essere le caratteristiche dominanti della sua lingua letteraria (un lavoro, me ne rendo conto, forse paragonabile alle notti insonni del succitato Armitage per decifrare il Manoscritto Whateley!). Lingua che non è casuale, o maldestra, o grottesca, come spesso si è sentito dire (anche da Stephen King più volte, purtroppo, che pure riconosce ad HPL un debito fondamentale sul fronte dell’immaginario), ma scientemente pensata per fare provare al lettore l’estetica della mostruosità, della pesantezza da abisso risucchiante, da straniamento cosmico. Le mie pagine preferite del saggio sono quelle in cui analizzo ad esempio gli sperimentalismi finali di HPL nel racconto (tra gli ultimi suoi) The Haunter of the dark (tradotto criminalmente dal grande e compianto Sergio Altieri come Il Dominatore delle tenebre; difficile quello “haunter”, da “to haunt”: infestare; tradurrei più fedelmente Colui che infesta il buio… suona bene, no?) —I am it and it is I— eccolo qui, il trattino parentetico lungo che è l’equivalente sintattico del flash, del lampo di visione che frammenta la realtà del protagonista fondendola con la vista del mostro dall’occhio trilobato che infesta la guglia della chiesa abbandonata (sconsacrata è dir poco, e contro cui nulla può la fede del prete cattolico dal sinistro nome di Father Merluzzo…): segno di punteggiatura con cui HPL realizza una sorta di cut-up linguistico volto a fondere umano e mostruoso in una stringa in cui la sintassi esplode in impressioni giustapposte, non logiche (e infatti il trattino — sarà usatissimo da uno dei più rivoluzionari autori americani, nonché grande estimatore di Lovecraft: William S. Burroughs, ad esempio nei suoi romanzi Naked Lunch o The Soft Machine). HPL è stato capace anche di far sentire quanto l’infinito possa essere pesante, semplicemente attirandoci nei suoi buchi neri linguistici, come un Leopardi newenglander che assiepi una messe di siepi, fatte d’avverbi e aggettivi… ma qui il discorso si fa luuungo… ad infinitum. Vi rimando al saggio.

4.Ora ti faccio una domanda scomoda. In "L'orrore a Red Hook – La chiamata di Cthulhu" ti sei cimentato in una nuova traduzione di Lovecraft. Da cosa è nata questa esigenza e come vedi il dibattuto argomento delle traduzioni del Solitario di Providence in Italia? Quali ritieni siano le migliori e le peggiori?

La domanda è scomoda solo se ti rispondo che le traduzioni di Lippi NON sono le migliori in commercio :) Seriamente: l’esigenza è nata, parallelamente al lavoro critico, dal voler dare a Lovecraft ciò che è di Lovecraft, per poterlo leggere in una versione italiana che fosse il più possibile fedele alla sua lingua inglese originaria. L’assunto è: la potenza cosmica e orrifica di HPL risiede non solo nel suo fenomenale e ineguagliato (non da Poe, non da King, non da Ligotti né da nessun altro) immaginario, ma anche nel suo stile; traducendolo infedelmente si rischia di perdere molta di quella potenza. Ho cercato quindi di fornire una versione (per ora dei racconti L’orrore a Red Hook e La chiamata di Cthulhu, per le edizioni Jouvence; sto lavorando a Colour out of space e Dunwich, per cui ho in serbo grandi e credo innovative soluzioni per certe particolarità di quei due testi…) filologicamente fedele. Quando HPL usa i latinismi, li ho rispettati; quando usa 3 aggettivi ne ho lasciati 3; quando il periodo s’appesanta di due relative e due subordinate temporali, ho mantenuto inalterata la pesantezza, e così via. Io ho magari esagerato con la letteralità, complice il mio passato scolastico di traduttore dal greco e dal latino (Fusco mi ha scritto privatamente che traducendo così sembro più simile a una macchina che non a un poeta e che la letteratura è poesia, non filologia: concordo in parte ma fondamentalmente dissento), ma c’è chi ha esagerato con la libertà: il grande Giuseppe Lippi ci ha dato una delle più eleganti traduzioni con i suoi Tutti i racconti, ma Lippi spesso semplifica eccessivamente la sintassi e il lessico lovecraftiani, rendendoceli troppo accessibili e scorrevoli (e, se fosse ancora vivo, si infurierebbe per queste mie parole esplicite, come già si infuriò in passato per alcune mie parole molto più velate; immaginiamolo, indimenticato, mentre ci manda anatemi da una infradimensione, con il suo sorrisetto malefico); con la sua sistemazione cronologica e il lavoro su testi emendati da Joshi (ma spesso appunto traditi), Lippi ci ha dato comunque una delle migliori versioni in commercio. Negli anni andati, la Rambelli che traduceva HPL per Fanucci (sue trad. in Nelle spire di Medusa e Sfida dall’infinito) ha fatto un gran lavoro, molto elegante; il volumone Mammut della Newton (con traduzioni di Fusco e altri poveri traduttori sempre misconosciuti, ma reperibili un po’ a fatica, riassunti sotto il patronimico, quasi mitologico shoggoth risucchiante identità, di Gianni Pilo) resta tra i miei preferiti in quanto è il più completo in commercio (tutta l’opera narrativa e poetica + Commonplace Book nelle vecchie edizioni + stralci da lettere e resoconti di sogni et c.); L’opera completa della Fanucci, recente, anche se completa non è (manca inspiegabilmente, forse per dimenticanza, il racconto The shunned house, ad esempio!), si avvale di una delle migliori prefazioni ad HPL di sempre: Carlo Pagetti, I suoni e la furia (prima del silenzio), che ha il coraggio di affiancare il lavoro stilistico di HPL a quello dei grandi modernisti inglesi e americani, da Joyce a Faulkner… d’altra parte il grande prof Pagetti scrisse il primo e tutt’ora fra i più importanti contributi critici all’opera di HPL con quel suo L’universo impazzito di H.P. Lovecraft, 1967. E arrivo a quella che secondo me resta una delle più fedeli traduzioni di sempre: I racconti del Necronomicon (2 voll, recentemente ristampato da Fanucci in vol. unico), tradotti da Susanna Bini. La sua lingua è materica, quasi sempre fedele all’inglese originale; a tratti ruvida e non esente da grezzezza ma, ehi, questo è l’aspro Lovecraft, baby. Sicuramente non è scorrevole come Elena Ferrante… . Molto interessanti anche la Edizione Annotata di Lovecraft, a c. di Klinger (le trad. sono di nuovo le Mondadori di Lippi, con qualche piccolo intervento revisorio del competentissimo Massimo Scorsone), con una messe di note storiche, filologiche e illustrazioni a colori di tutto il contesto reale delle opere di HPL; anche le traduzioni Feltrinelli di Altieri, Il dominatore delle tenebre e Il profeta dell’incubo, hanno una loro fascinazione: Altieri alterna fra rispetto e voluta libertà eccessiva nel tradurre il sognatore; le sue schede introduttive ai racconti sono fenomenali per acutezza e sintesi. L’eccellente Pietro Guarriello ci ha poi presentato il più accurato compendio del mondo dei sogni di Lovecraft, con il suo Oniricon (per Bietti, che traduce ed espande The H.P. Lovecraft Dream Book a c. di Joshi, Murray, Schultz). In conclusione, una eco nostalgica: le Opere Complete della Sugarco non sono certo all’altezza di traduzioni più moderne e corrette, ma il volume affascina gli antichi come me; infine quella che io chiamo La Serie Nera della Fanucci (Il cartonato Ciclo di Cthulhu che inizia con il vol. 1, Azathoth; e se a qualcuno interessa l’acquisto in blocco, credo che lo stimato signor Dario Vaghi, della Libreria Fantascienza e… altro, disponga ancora di lotto in vendita… lo trovate di sicuro col suo banco anche a Stranimondi) sarà superata in quanto a fonti dei testi (erano dell’era pre-Joshi) ma presenta un impianto invidiabile che integra e affianca narrativa e sogni (ad esempio Call of Cthulhu e sogno originario trascritto in lettera), saggistica e memorie (Pilo e Fusco fecero davvero un lavoro encomiabile, qui).

5.Nei tuoi racconti della raccolta "Oltre il mondo", sembra emergere una tematica ricorrente legata alla metamorfosi dell'identità e alla coabitazione di uomini e mostri. Come hai sviluppato questa concezione e in che modo essa si manifesta nei vari racconti della tua opera?

“Ti si sta staccando la maschera” dice al marito, del tutto inattesa, la moglie, nelle prime pagine del bellissimo romanzo Apocalisse, di Tiziano Sclavi. Il marito non è un mostro… di quale maschera sta parlando, quindi? Forse la sua faccia non è veramente la sua faccia? Ecco, diciamo che questa citazione sclaviana riassume abbastanza bene il mio punto di partenza: un corpo metamorfico, che rivela improvvise malformazioni (strabismo, zoppia) o che si rivela altro da sé: nel mio racconto I visitatori una allegra brigata viene presa prigioniera in una sorta di campo di concentramento da una genìa di soldati mannari con volti da lupo: i buoni da una parte e i cattivi dall’altra. Ma poi alcuni ruoli si invertono… e quindi siete sicuri che questa sia la mia faccia? Che sotto non ci siano in realtà delle zanne ululanti? Oppure nel racconto Get stuffed! — Una storia di Londra, in cui un serial killer lascia le sue vittime catatoniche a strascinarsi per le strade gelide della dylandoghiana metropoli del nord, prima di finirle con mutilazioni ultimative, i protagonisti Giovanni Lenoni e Demonia Love hanno identità quasi automatiche, quasi non decidessero le proprie azioni ma fossero mossi dai fili di una tragedia mostruosa, ineluttabile… anche qui, persone tranquille rivelano inquietanti sorprese. Pare che la società umana sia fatta apposta per raggelarci improvvisamente. Mi chiedi poi della coabitazione di uomini e mostri: sì, qui ad esempio in Macchie, vediamo un essere mostruoso vivere la sua quotidianità con un essere umano: ma quale dei due è il peggiore? E chi ama davvero l’altro? Chi ne verserà il sangue? Come ho sviluppato questa concezione: volevo vedere mostri. Fin da bambino. Quindi il protagonista di Mostri e Mostri 2 dovrebbe essere contento quando il Virus M trasforma la realtà esterna in mastodonti apocalittici pronti a schiacciare e distruggere Cirimido nel comasco come la città di Padova… invece la reazione naturale al confronto con il mostro è l’orrore, la lotta. Forse siamo perennemente attratti da e in lotta con la nostra essenza mostruosa. Forse l’amore vero è sempre spaventoso. E, se i mostri sono all’angolo della strada anche nei miei racconti, diversamente da HPL i miei protagonisti non impazziscono dopo la rivelazione, ma continuano a vivere con i vampiri, con lo zio blasfemo necromante, con la mia pelle che si ribella e si stacca dal corpo la notte, con Quello che aspetta appena fuori dalle finestre della casa… (p.s. mi rendo conto solo ora che avrei dovuto promuoverlo di più questo Oltre il mondo: sembra proprio figo! :)

6."Oltre il mondo" attinge a una vasta gamma di influenze, tra cui la tradizione vampirica, il "weird" di Lovecraft, la fantascienza dell'orrore e il cinema. Quali sono alcune delle chiavi narrative e stilistiche che hai utilizzato per amalgamare queste influenze in un'unica narrazione coesa e coinvolgente?

“Questa mattina, appena alzato, ho acceso la televisione. Ho visto la scena di un film, per caso. Un uomo e una donna molto più giovane imitavano dei versi, bestiali, mostruosi. Grugniti, ruggire, lei si alzò in piedi con le mani adunche, ad artiglio (…) il televisore, davanti a loro: sullo schermo, due mostri enormi lottavano” è l’incipit del mio racconto Mostri. Di solito comincio così: la scena di un film mi affascina a livello simbolico-inconscio (credo tocchi un archetipo junghiano, cfr. CGJ, Simboli della trasformazione) e la traduco in forma letteraria, secca e senza fronzoli (peraltro: non sono mai riuscito a ritrovare quella scena di umani che imitano mostri! Che film è? Cercato a lungo, mai trovato. So solo che il protagonista maschile è il mostruoso Dudley Moore… help me!). Poi la narrazione si allarga al contesto quotidiano dei o più spesso del protagonista: una casa comune, paesi, città che ho abitato davvero (infatti spesso mi accusano di autobiografismo come fosse una colpa o un difetto: ma scusate, S. King dove dovrebbe ambientare le sue storie se non nel Maine in cui vive? E che ne sarebbe del miglior Lovecraft senza il suo autobiografico I AM PROVIDENCE?), descritti con poche note essenziali. Spazio reale e spunto filmico devono quindi essere vicini nella maniera in cui da una finestra guardo un esterno, o dal divano guardo una finestra televisiva su un altro mondo: una vicinanza straniante. Poi accade l’evento (fantastico): fuori dall’abitazione del protagonista che fa tranquillamente colazione ci sono effettivamente dei mostri. Chi imitava chi, quindi? Qual è la finzione? E, in un mondo sconvolto da una apocalisse pubblica o privata, avremmo ancora bisogno di rifugiarci in un immaginario salvifico? Mi chiedi poi dello stile per ottenere coesione tra narrazione e influenza filmica: cerco di trovare sincronicità tra ciò che accade sullo schermo e gli eventi del racconto: ad esempio ne I visitatori, i blasfemi soldati mannari che strillano e massacrano la famiglia di David in Un lupo mannaro americano a Londra sono gli stessi a cui i protagonisti, imprigionati nella cava a scavare senza un apparente scopo (“Si poteva vivere, nella paura continua di morire? Sembrava di sì: noi eravamo lì, a dimostrarlo”) pianificano a un certo punto di ribellarsi. Ma proprio all’inizio della rivolta, i primi spari dei rivoltosi coincidono e vengono parzialmente coperti dalle urla che vengono da una piccola televisione che sta guardando uno dei prigionieri… che trasmette proprio Un lupo mannaro americano a Londra. Si tratta insomma di sviluppare il film originale in un’altra direzione, molto diversa, ma che non ne tradisca lo spirito originario (in questo caso: orrore imprevisto in contesto quotidiano apparentemente tranquillo; un ragazzo normale pronto a trasformarsi all’improvviso in un mostro che stermina la popolazione urbana, senza alcun autocontrollo). Mi rendo poi conto ora che spesso nei racconti di Oltre il mondo vige una sorta di atmosfera catatonica diffusa: i personaggi sono spesso l’estremizzazione di una generazione di zombie come la mia, cresciuta con il cervello e gli occhi collegati alla televisione (per i bambocci di oggi i social svolgono funzione simile), che guarda passare anche gli eventi più assurdi, continuando a bere il caffelatte. Dal punto di vista stilistico: tanti anni fa, una giovane Barbara Baraldi per cui scrivevo la recensione della prima versione de La collezionista di sogni infranti (per Perdisa Pop), e che a sua volta leggeva un estratto del mio romanzo ancora inedito Melita, mi disse che “hai una scrittura molto cinematografica”; diceva che l’azione era veloce, le descrizioni molto visive, come mostrate da una mdp (ai tempi era deformazione professionale: facevo il recensore part-time non pagato per “Nocturno Cinema”, rivista nota per la sua generosità con i collaboratori…). Non un narratore onnisciente, quindi, ma un occhio calato al livello dei personaggi: credo che questo funzioni bene nell’amalgamare insieme i miei eventi narrativi con quei frammenti filmici che mi hanno ispirato (ne cito un ultimo: Repulsion di Polanski, che occhieggia tra le crepe del racconto Quello che aspetta).

7.Nel tuo romanzo "Contro", la lotta dei protagonisti contro un mondo privo di amore e speranza sembra essere un tema centrale. Quali sono alcuni degli elementi narrativi e dei conflitti interiori che hai utilizzato per esplorare questa disperata ricerca di significato in un universo indifferente?

Il conflitto interiore centrale fu il mio essere adolescente, grunge e diverso, negli anni ’90. Era un mondo in cui se potevo sbagliare qualcosa lo facevo (i rapporti con gli amici, con i miei genitori, le scelte musicali, gli insuccessi scolastici…); ad esempio, portai avanti per anni una relazione con una ragazza che non amavo, convincendomi di amarla. Questo costringersi su strade strette e sbagliate (altro che la Rue d’Auseil del musico Erich Zann!) generava ovviamente una nera rabbia, frustrazione violenta che doveva emergere da oceani apparentemente rossi e tranquilli, sfociare in qualche modo detonante BANG!!! Ma al di là del mio biografismo (mea culpa semper), è questo un conflitto comune alla X Generation dei 90s: Nevermind, non importa, nessun valore. O meglio, il Nulla come valore nichilista. Da qui la violenza indiscriminata (contro Nemici, buoni, se stesso) del protagonista di Contro, il giovane punk Chris. Se nulla ha significato, perché non sparargli? Ma ovviamente non si può essere giovani nichilisti per sempre, e quindi ecco la figura del Generale: la nostra controparte adulta, invecchiata, reazionaria. Il Generale, confinato nella desolata Frontiera (molto più a Nord-Ovest della Tule-Perlacea-del-Sonno, ultimo avamposto di vera civiltà) a comandare massacri di nativi, lavora per conto di una misteriosa Macchina, sulfurea e disumana; per chi lavoriamo, in effetti? Per la società, per il benessere del nostro Paese? La troppa dedizione al lavoro fa perdere al Generale la moglie Eleonora, ma la Macchina la farà tornare, anche se in modalità decisamente artificiali (e qui si apre la deriva del romanzo sulla AI, sul deep fake e deep learning per richiamare in vita un simulacro dei morti). Quindi il conflitto non è così risolto come si immaginerebbe: chi è più nichilista, il giovane contestatore idrofobo o il vecchio che annulla la sua vita al servizio di scopi superiori che non comprende? Dici benissimo poi quando parli di lotta contro un mondo privo di amore e speranza: basti considerare la figura di Padre Ascanio, quale esempio di mascolinità del mondo che ruota intorno alla città di Vorpo-R’lo-Ròel: la blasfemia di uno stupratore sadico che trae piacere dal sottomettere la moglie di un suo parrocchiano a suon di pugni in bocca e umiliazione della nudità. Un falso prete che ha rubato l’identità del vero prete… assassino e falso a sua volta: un esempio frattale di come nel mondo di Contro non ci sia un’EXIT, una possibilità di redenzione. E quando l’amore non è violenza pura (la storia dolce tra il cercatore d’oro Elmer Brown e la ladra adolescente Pat) è destinato a venire travolto dall’onda dell’altrui malvagità, sia invidia o glaciale indifferenza. Non c’è significato allora, in questo mondo? Una risposta positiva la dà il Necromante, terzo protagonista della storia che si avvale di nozioni alchemiche desunte da Petrarca e Dante, quando afferma che “possiamo sempre aspettare una nostra gloriosa resurrezione”: il significato è nella nostra ricerca identitaria, nel continuare a navigare verso quello che sempre più intravediamo essere, per quanto improduttivo sia. Divenire, oltre la morte, “transmitted thought”, pensiero trasmesso, un amore che rifugge la società pur comprendendola… 

8.La presenza di riferimenti musicali, come le canzoni dei Nirvana, dei Sonic Youth e dei Red Hot Chili Peppers, aggiunge un'ulteriore profondità al tuo romanzo, risuonando con la generazione dei protagonisti. Come hai integrato la musica nella narrazione e quale ruolo svolge nel delineare l'esperienza emotiva dei personaggi e nel creare l'atmosfera generale del libro?

A quell’epoca mettevo su un disco dei Primus e scrivevo; la direzione razionale della narrazione prendeva allora, sovente, delle derive incoscienti… un po’ sul modello dei beat americani, socchiudevo gli occhi o mi ingrugnavo come una scimmia sui tasti, lasciandomi sospingere dai ritmi sincopati e dalle note dissonanti, dimenticando la direzione del racconto per prenderne altre, inaspettate. Battevo parole quasi casuali (è meno difficile di quello che sembra, quando hai confidenza con la tastiera, scrivere anche a occhi semichusi: lo sto facendo adesso come proca… poi ovviamente rileggi e correggi proca in prova) ma in realtà emergenti dal livello che sta appena sotto la coscienza: coccodrilli sotto il letto e Cristoforo Colombo accecato da frammenti di vetro… . Quindi la musica influenzava in primis la mia scrittura: la sintassi che ne derivava era spezzata, frantumata in paragrafi come strofe di canzoni od ossessiva come ritornelli. Il punto di vista saltellante come il basso slappato di Les Claypool. Sul piano del contenuto, invece, personaggi che affrontano un mondo senza amore desiderano fortemente che “una canzone sia il mondo intero”: cioè che dia loro quello che il mondo reale gli ha tolto o non gli ha mai concesso: una accettazione, integrazione sociale. Un brano come Tearjerker dei RHCP (scritto da Anthony Kiedis shockato dalla notizia della morte di Kurt Cobain, e a lui dedicato) rappresenta quindi non solo il dolore strappalacrime del protagonista Chris perso nel suo deserto emotivo, ma anche, con le sue note lunghe, gli arpeggi psichedelici di Dave Navarro e una melodia che muove dal Re maggiore per scivolare nel drammatico Mim-Do, tutta quanta l’atmosfera stoned e frastornante del deserto a nord di Vorpo-R’lo-Ròel e a sud della catena dello Zamozte. In fondo al romanzo ho riportato una Discografia di tutti i brani coinvolti: credo che chiunque abbia vissuto o stia vivendo una adolescenza in cui si sente diverso e non integrato (dis-integrato) nel suo contesto quotidiano, possa riconoscersi in questi brani e nella narrazione che accompagnano.

9. Hai partecipato all’ultima antologia Grimoria della collana Strani Aeoni. Ci puoi parlare di questo progetto che ti vede coinvolto da tempo?

Devo la mia partecipazione alle raccolte Grimoria e Disagio al fenomenale Paolo Sista, scrittore eclettico e tra i principali motori fondanti (insieme a Mauro Palazzi) di Strani Aeoni e del Gruppo Telegram Lovecraft Italia: il simpatico marrano (perché i suoi scritti violano sovente le normali regole dell’etichetta letteraria… ma va bene anche mannaro) mi ha infatti fatto scaricare la app Telegram, primo; poi mi ha coinvolto invitandomi a scrivere dei racconti per le due raccolte suddette. Cosa che ho fatto con grande piacere, perché intorno a Strani Aeoni gravitano persone seriamente dedite a tutto ciò che è Lovecraft, fantastico e dintorni; il gruppo Lovecraft Italia vanta già 500 utenti, è aperto e lo consiglio a tutti. Per Grimoria (nuovo volume di racconti di ispirazione lovecraftiana, dopo i precedenti notevoli di P. Sista, Cthulhu dreams by smartphone e Taumatropio; AA.VV. L’orrido verde; AA.VV. Antologia di orrore cosmico italiano, in 2 voll.) ho contribuito con il mio racconto Una famiglia nera unita: un folk horror ambientato nella Lombardia del primo ‘900, nel quale si muovono uno zio e una nipote blasfemi, sudici, dediti alla peggiore magia nera. La narrazione integra un cospicuo apporto dialettale lombardo e brani della canzone popolare milanese e nordica (dalla Bella Gigogin a E mi la dona bionda) a fianco di citazioni da Pavese e Verga: più che citare ho proprio tagliato alcuni brani degli autori e li ho collegati al mio testo con lievi modifiche che nascondono i punti di sutura, piegandone però il significato originario ai fini malefici del racconto: una poesia di Pavese diventa quindi formula magica ripetuta ossessivamente dalla laida strega che percorre ponti a piedi nudi, corrompendo giovani. Evento cardine: il crollo del ponte sul Seveso in località Saltagat, nel 1917: fatto storico, reale, come reale fu allora la morte di alcuni piccoli membri della mia famiglia, del ramo di mio padre. Ovvio che su quel ponte posò i suoi immondi piedi anche la strega protagonista del mio racconto, che si chiude con una somma sorpresa: un collegamento al Commonplace Book di Lovecraft, qui in parte tradotto… e integrato. Alla raccolta Grimoria partecipano autori di varia ispirazione, tutti interessanti nelle loro movenze grimoriche e necromantiche; spicca anche il nome di un Cesare Buttaboni, che credo ti sia noto, che ha contribuito notevolmente con racconti e saggi. Sempre per il gruppo Lovecraft Italia (le cui pubblicazioni sono edite da Colomò) ho partecipato anche all’ultima raccolta: Disagio. Vivere e morire dopo il 2020: qui si esula dal fantastico e dal weird per affrontare, con testi realistici, il disagio del vivere contemporaneo. Ho contribuito con il mio testo Baby Boom: rielaborato come racconto, è un estratto dal mio ultimo romanzo in uscita, Il Re è solo (Carcosa Edizioni Fantastiche), che vedrà la pubblicazione in questo settembre 2024: opera a cui ho lavorato per ben 7 anni, per me davvero inusuale perché per la prima volta non si tratta di un romanzo fantastico ma realistico, addirittura biografico! Alcuni fatti del mio passato recente hanno infatti richiesto una rielaborazione totale della mia vita, che si è tradotta anche necessariamente in ricostruzione romanzesca del mio vivere: in breve, in Il Re è solo un critico lovecraftiano viene buttato fuori di casa dalla sua compagna milanese che non lo ama più e deve ricostruirsi una vita e una casa, altrove. Ripartire dalle macerie. Nuovo Realismo, sì (tra i miei capitoli preferiti, oltre al Baby boom già citato sui valori dei giovani d’oggi, c’è anche un ricordo dell’amico che fu Giuseppe Lippi, e un racconto fedele del funerale di Silvio) ma sono sempre io: ecco quindi che spiego l’inquietante convergenza tra la mia biografia e quella del buon Lovecraft; e nel capitolo più scientificamente delirante illustro la mia filosofia del “moto ondoso dell’anima”, che riprende e amplia il principio di cosmosi già descritto in Il linguaggio di Cthulhu. Insomma, un romanzo vero in cui però anche i lovecraftiani potranno trovare pane per i loro tentacoli.