In The Paradox of Horror: Fear as a Positive Emotion (The Journal of Aesthetics and Art Criticism, 70, 4, 2012, 383-392) Katerina Bantinaki cerca di rispondere alla domanda sul perché gli amanti del genere horror (nelle sue varie sfaccettature) trovino piacevole qualcosa che per sua natura è spiacevole e angosciante. Più in generale, si tratta di capire da cosa derivi l’attrazione esercitata dalla fiction in grado di generare sensazioni di paura, dato che la paura è una reazione che comporta di norma l’evitamento di ciò che la produce.
La questione, abbastanza contro-intuitiva da costituire un paradosso, non riguarda in realtà solo il genere horror, ma qualunque tipo di fiction (come ad esempio il thriller) che si prefigga lo scopo di generare paura nel fruitore. Prima di fornire la sua versione, Bantinaki esamina alcune delle teorie che sono state proposte per spiegare il paradosso apparente.
Noël Carroll, ad esempio, ritiene che l’attrazione sia esercitata dalla curiosità intellettuale che può essere indotta dalle tipiche creature messe in scena nell’horror, quali: lupi mannari, zombie, vampiri, squali, ragni giganti, alieni e psicopatici. Si tratterebbe dunque della fascinazione esercitata dal “mostro”, inteso nella sua accezione originale di ciò che attira lo sguardo.
Per Carroll però non si tratta di morbosità, bensì dell’interesse verso ciò che esula dagli schemi “naturali”, e che si vuole conoscere meglio, magari per non averne paura.
La tesi di Carroll, tuttavia, non tiene conto del fatto che la reazione che viene ricercata è di tipo emotivo e non cognitivo. In un approccio diverso, Alex Neill fa notare che il normale evitamento non è indirizzato alle emozioni in sé, ma piuttosto alle situazioni che le provocano. A sua volta, John Morreal osserva che l’eccitamento correlato alla paura non è necessariamente spiacevole, ma anzi può essere ricercato per dissipare la noia, tanto più in quanto ciò avviene in situazioni in cui non c’è un vero pericolo.
Carroll obietta a Neill che secondo lui la sgradevolezza non riguarda solo le situazioni, ma anche le sensazioni corporee in quanto tali (ad esempio il disgusto). Tuttavia, dice Bantinaki, anche se ci possono essere elementi spiacevoli mescolati alla situazione di eccitamento, c’è da considerare che essi vengono resi più accettabili dal fatto che la situazione rimane sotto il nostro controllo (ad esempio, di fronte a una scena insopportabile posso chiudere gli occhi).
Mettendo insieme le precisazioni di Neill e Morreall, emerge che tendenzialmente nessuno o pochi si esporrebbero a dei reali pericoli solo per procurarsi dell’eccitazione, ma esporsi a un pericolo che non è reale è invece un mezzo piuttosto semplice e innocuo per avvertire l’intensità della vita. Scampare alla morte è in effetti il modo migliore per sentirsi vivi.
Dato che le emozioni derivano dall’incrocio tra l’attivazione di alcune risposte fisiologiche (come l’afflusso di adrenalina) e la valutazione cognitiva delle situazioni che le provocano (sono sull’orlo di un precipizio o mi trovo sulle montagne russe?) non è affatto strano che l’esposizione volontaria a una situazione che evoca il pericolo, senza tuttavia essere realmente pericolosa, risulti piacevole.
C’è inoltre da notare che un aspetto cruciale della situazione disturbante, che si suppone dovrebbe essere evitata, ha a che fare con il fatto che tale situazione riguardi oppure no il soggetto. Quando Indiana Jones si trova chiuso nella piramide, circondato dai serpenti, non solo sono consapevole che si tratta di un film, ma posso anche sentirmi molto sollevato per il fatto che lì dentro non ci sono io ma l’eroe (anche se solidarizzo con lui).
A questo punto Bantinaki fa una digressione sui giochi in cui i bambini e i ragazzi si espongono a dei piccoli rischi, in apparenza per il puro gusto di sfidare se stessi, ma presumibilmente seguendo un impulso connaturato a esercitare le proprie capacità in situazioni che, pur essendo controllate, sono comunque in grado di migliorare la loro padronanza.
Allo stesso modo, conclude la studiosa, possiamo supporre che anche gli adulti amino esporsi a delle situazioni che nella vita reale sarebbero semplicemente orripilanti, riuscendo a ricavarne un piacevole eccitamento e, verosimilmente, una maggiore padronanza delle proprie reazioni emotive.
La questione che qui è stata riassunta è già presente nel famoso saggio di H.P. Lovecraft The Supernatural Horror in Literature (The Recluse, 1927) nel quale si afferma (è la frase iniziale) che la più antica e più forte emozione della specie umana è la paura, con ciò lasciando intendere che per gli umani è del tutto naturale esserne, in qualche modo, attratti.
Vale la pena notare che il paradosso della paura è collegato a un più ampio dibattito sul paradosso della finzione (intesa nel senso di finzione narrativa) che deriva dalla difficoltà di spiegare come sia possibile provare delle emozioni (paura compresa) in relazione a contesti e oggetti che non esistono.
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