Cristiano Demicheli, genovese, classe 1975, esordisce nel 2011 per Rizzoli col romanzo per ragazzi Melasia. Successivamente, in seguito alla vittoria del Premio Hypnos pubblica con la casa editrice milanese Cronache della Val Lemuria nel 2019 e una sorta di sequel, il romanzo L’anno delle volpi, presentato in anteprima al Salone del Libro di Torino poche settimane fa. Nel mezzo, trova anche il tempo di dedicarsi al genere true crime con Quell’oscuro desiderio (Rogas edizioni) interessante e atipico saggio sulla tragica vicenda del Mostro di Firenze.
Personaggio colto, divertente e spesso dissacratorio in modo assai intelligente, si tratta senza dubbio di un autore – e di un individuo – per nulla banale.
Horror Magazine l’ha intervistato per voi.
Ciao Cristiano, innanzitutto grazie per aver accettato di rispondere alle mie domande e benvenuto su Horror Magazine. Domanda per rompere un po’ il ghiaccio che, anche se banale, serve a togliermi una curiosità personale. Dopo la precedente antologia Cronache della Val Lemuria uscita ormai 3 anni orsono, come è nata l’idea di un romanzo? E in particolare, un romanzo dalla struttura così insolita, che potremmo quasi definire “a episodi”. Insomma, come ti è scattata la scintilla?
CD: Ciao e grazie dell’invito. L’Anno delle Volpi è nato proprio perché, dopo le Cronache, volevo tornare in Val Lemuria e continuare l’esplorazione di questa realtà che è vicina alla nostra eppure lontanissima. L’idea di un fantastico dietro casa è per me mille volte più affascinante di qualsiasi mondo perduto o dimensione parallela. Per quanto riguarda la scelta del romanzo, mi è sembrata quasi obbligata: dopo l’impressionismo delle Cronache volevo offrire una specie di grande affresco, un “Giudizio Provinciale” di ampio respiro (in questo, credo, mi ha influenzato anche la rilettura dei classici russi). Da qui è sorta l’idea del ballo delle volpi, che è poi la chiave del libro, perché, se ci pensi, i personaggi sono proprio come figure di un cotillon o qualche ballo del genere: si prendono, si lasciano, si riprendono senza fermarsi mai. Vivono, insomma.
Una delle prime caratteristiche che salta subito all’occhio è la qualità – elevatissima – della tua scrittura. Non che il precedente lavoro mancasse di questo, tutt’altro, ma ho riscontrato un livello ancora più alto di tecnica, unita a una maggiore voglia di comunicare col lettore, il non essere solo una semplice voce che narra le storie e gli avvenimenti. È così o mi sbaglio?
CD: In effetti ho lavorato abbastanza sul linguaggio. La difficoltà è la misura, ovviamente: se eccedi diventi ampolloso o compiaciuto, ti parli addosso; se lo limiti a pochi tocchi, l’effetto che ottieni è quello di un tappeto persiano in una baracca. Bisogna mescolare bene perché le parole desuete, gli arcaismi, gli idiotismi si amalgamino al resto, senza spiccare, senza stonare.
Il risultato finale, se tutto va bene, è un dettato scorrevole ma “straniante”. Ho cercato di portare un po’ di atmosfera nella forma, oltre che nei contenuti. Non voglio che il lettore si senta a casa propria mentre legge: deve sentirsi in Val Lemuria.
Un’altra peculiarità abbastanza particolare e che in altri hanno già notato è la collocazione temporale del romanzo. Infatti tu lasci qualche coordinata che fa intuire che gli eventi de L’anno delle volpi si svolgano in un passato abbastanza recente, ma non troppo. Ad esempio non vi è alcuna menzione in tutto il romanzo di internet, social network e compagnia; d’altra parte però non andiamo nemmeno tanto indietro nel tempo, considerando la citazione di Susanna di Celentano, celebre brano pubblicato dal “molleggiato” nel 1984. Potresti fornirci notizie più precise in merito?
CD: Come sopra. L’atemporalità va di pari passo con l’indefinitezza linguistica e geografica. Le coordinate sono molto generiche: siamo evidentemente da qualche parte tra Genova, Alessandria e Piacenza, siamo evidentemente da qualche parte tra il 1980 e il 2022. Molte cose sono cambiate in questi quarant’anni, ma le cose essenziali sono sempre le stesse, credo. Come diceva il professor Tolkien: «Le fiabe parlano di cose permanenti: non di lampadine elettriche, ma di fulmini». Le persone si amano e si odiano per gli stessi motivi di diecimila anni fa, cambiano solo i contesti e le circostanze minime. Mi è sembrato interessante concentrarmi su questi aspetti “eterni” e tralasciare quelli “passeggeri”. Quando leggi Madame Bovary fai fatica a immaginarla in una casa piccolo-borghese del XIX secolo: pensi a lei come a una contemporanea. E poi non mettono tenerezza quei libri di centocinquant’anni fa che ostentano orgogliosamente un fonografo, un velocipede?
Puntiamo ora un po’ l’obiettivo sui personaggi, vero cuore e motore del romanzo. Zangrandi, Cappini, Bastiano, don Olindo, Esmeraldo, Jolanda solo per citarne alcuni, sono più che mai vividi e “carnali”, coi loro vizi e le loro virtù. So che forse non sarai in grado di rispondermi ma ti chiedo: c’è n’è uno in particolare al quale ti senti più affezionato? E perché?
CD: Curiosamente mi è abbastanza facile rispondere a questa domanda perché non sento di aver creato i personaggi. Nei piani di lavorazione erano appena sbozzati, erano maschere: il protagonista, l’amico perdigiorno, il prete ubriacone, l’illuminista ecc. Tutto quello che ho fatto è stato di lasciarli sviluppare secondo le loro attitudini. Ne sono emerse tante sfaccettature che non sarei mai riuscito a inventare a tavolino: per qualche motivo che mi sfugge, lasciati a loro stessi i personaggi sono diventati complessi, contraddittori, affascinanti come delle persone vere o quasi. Per questo sento di poter fornire di loro un giudizio assolutamente spassionato, da “esterno”. Lella e don Olindo sono probabilmente i miei personaggi preferiti: c’è una certa purezza in loro che deriva dal fregarsene assolutamente – per motivi diversi – dell’opinione altrui. I tre del bar – Bastiano, Zangrandi, Cap – sono, oggettivamente, dei disgraziati che non combineranno mai niente di buono e lo sanno. Per fortuna, in Val Lemuria, non è poi così grave. Jolanda è un po’ la somma di tutte le donne forti che ho conosciuto: donne che detengono un potere segreto a noi precluso. Quanto al Professore, sono dispiaciuto per lui, sinceramente. Credo che soffra di una leggera depressione.
Il tuo stile è, come già detto, raffinato e piuttosto ricercato, tanto che chi si limita a una visione un po’ più superficiale del tuo lavoro potrebbe quasi pensare che tu abbia poco da spartire con il fantastico, e col weird in particolare. Alcune persone con le quali ho avuto modo di parlare a qualche evento mi hanno detto che: “Sì, Demicheli scrive bene, ma non è il mio genere”.
Posto che io non ho ancora capito quale potrebbe essere il tuo genere, ti va di chiarire questo punto per l’ennesima volta?
CD: Non credo nei generi, onestamente. La classificazione in generi mi sembra una cosa da lettori molto pigri. Per un autore, poi, è perfino pericolosa: come puoi sperare di uscirtene con una calligrafia personale, che rappresenti quello che sei e ciò in cui credi, se usi il normografo? A me sembra che molti scrittori – non tutti, per fortuna – siano più fan che autori, più interessati a imitare i loro modelli che a esprimere se stessi. Restando in ambito fantastico, se ci fai caso, i libri più grandi sono di difficilissima – o impossibile – collocazione: penso al Dr Jekyll e mr Hyde, alla Macchina del Tempo, al Processo, all’Invenzione di Morel.
Perfino Lovecraft, col passare del tempo, assomigliava sempre meno a Lovecraft. Probabilmente ha scritto più cose lovecraftiane Derleth di Lovecraft stesso!
A prescindere dal fatto che l’ambientazione lemuriana gioca un ruolo di primo piano nei tuo libri, cosa ne pensi di questa tendenza del fantastico nostrano, che sembra volta un po’ a riscoprire scenari rurali e tradizioni legate al folklore del nostro paese?
CD: Mi sembra una cosa buonissima. Sono convinto che il nostro paese sia imbevuto di umori fantastici come pochi altri: nessuno ci fa mai caso, ma dopotutto il nostro poema nazionale è un’opera sfrenatamente fantastica! Questi umori, però, sono rimasti legati al contado, alla tradizione popolare e contadina, mentre la cultura si è sempre fatta a corte e, poi, nelle città. Quindi abbiamo dovuto fare un giro lunghissimo per riappropriarci delle nostre radici fantastiche, siamo dovuti andare fino in America. E da lì, di rimbalzo, ci siamo accorti che un gotico esisteva anche da noi, anzi, tanti gotici: un gotico siciliano, un gotico piemontese, un gotico lombardo, toscano, calabrese, emiliano, lemuriano…
Leggendo L’anno delle volpi, si percepisce distintamente come l’ironia, a volte sottile a volte più pungente, sia insita nel tuo modo di essere: a tal proposito hai più volte rimarcato come la vita vera e reale che ci riguarda quotidianamente sia, specie negli ultimi tempi, diventato qualcosa di davvero fantascientifico, e come neanche uno scrittore di Weird Tales o di Amazing Stories avrebbe potuto arrivare a concepire trame tanto ardite. Potresti spiegare più ampiamente il concetto?
CD: Potrei riassumerlo in una formula: maggiore è il carattere fantastico di un’opera letteraria e maggiore si dovrà considerare il suo grado di accuratezza nella rappresentazione del reale. Perché la realtà è fantastica, o per meglio dire, siamo stati abituati a chiamare fantastiche tutte quelle parti di realtà – la maggioranza, sospetto – che esulano dai pregiudizi di chi ha inventato queste regole. Quando si parla di realtà sembra che le uniche cose valide siano i conflitti esistenziali, l’amore e il sesso, i conflitti economici, il sesso, il denaro e il sesso. Nessuno scrittore “realista” inserirà mai in un romanzo una pandemia sorta da un faux pas tra un uomo e una scimmia, oppure un villaggio canadese incenerito per autocombustione a causa del riscaldamento globale eppure mi sembra che queste cose siano altrettanto reali dell’aumento del prezzo dei carburanti o del sesso. Evidentemente c’è qualcosa che non va nel concetto corrente di realtà. E quindi torniamo al fantastico, che per me è il vero realismo, una specie di realismo amplificato, un ultrarealismo.
Ultima domanda di rito ed inevitabile come la dichiarazione dei redditi: su cosa sei al lavoro al momento? Puoi darci qualche piccola anticipazione?
CD: Preferisco non scendere in dettagli perché neppure io ho le idee molto chiare. Sicuramente mi prenderò una vacanza dalla Val Lemuria prima di cominciare a considerarla una “comfort zone” letteraria. I libri che scrivo sono quelli che vorrei leggere e non ho trovato già scritti da qualcun altro, quindi prima di sottopormi all’ordalia di scriverne uno ne leggo il più possibile per assicurarmi che il libro che desidero non ci sia già!
Ringraziando Cristiano Demicheli per la disponibilità, vi lasciamo un breve estratto dal romanzo.
L’Anno delle Volpi, nelle parole del vecchio Esmeraldo Salacca, è “un anno fatto per quelli che hanno gli zampini bianchi e le orecchie a punta. Un anno di miracoli e prodigi”. Già, ma che vuol dire? Dev'essere una di quelle faccende della Val Lemuria, senza capo né coda, che possono capitare soltanto lassù in “quella specie di tasca in mezzo alle montagne dove la mano della realtà fruga di rado”. Perché la Val Lemuria è un posto decisamente strano, dove è facile fare qualche brutto incontro: una casa carnivora, il tuo doppelgänger o magari uno zoticone come il Bellesecche. Insomma, non c’è da stare tranquilli, eppure i suoi abitanti non si preoccupano affatto e continuano imperterriti a bere, innamorarsi, tradire, giocare a carte… e naturalmente a raccontarsi storie.
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