Chissà che ore sono. La donna si pente di non aver portato con sé l’orologio, rimasto sul comodino accanto al letto della figlia. Se l’era tolto quando la mammana le aveva ordinato di strofinarsi bene mani e braccia con l’alcool, la notte prima. Le sembrava lontana anni luce, quella notte nera, ora che aveva compiuto la sua missione. E se fosse capitato di nuovo lo stesso incidente, lei ormai sapeva cosa fare. Sissignore, un incidente, niente di irrimediabile. Nessun prezzo è troppo alto purché il bastardo stia buono, non la tocchi, non la picchi. Tanto Angela non sente niente.

In quel momento la donna si arresta. Ha avvertito un rumore nel vento.

Passi. Foglie calpestate. Sassi che rotolano.

Silenzio. Ora si sente soltanto il suo respiro affannoso. Il buio è compatto, non si vede ad un palmo di naso. Dev’essere stato un animale, ce ne sono tanti lassù, sul Vesuvio.

Riprende a scendere ma dopo qualche passo riecco quel rumore. Si ferma. Più nulla. Riparte. Rumore. Si ferma. Nulla. La donna avverte la forza dell’urlo che sta montando; apre la bocca per paura che possa esploderle in petto ma non esce che un flebile lamento.

Chi si’… vattenne! Vattenne!

La voce.

Non la tradizionale emissione e modulazione di suoni e parole. No, niente di udibile con le orecchie. Quella voce viaggia sulle onde del pensiero: viene direttamente dalla mente, e alla mente va. Non conosce barriere linguistiche o dialettali ma parla un idioma universale.

Chi sono io? Dovresti saperlo.

La donna la percepisce, si spaventa. Comincia anche a piovere. Che fare, dove andare… Nulla, da nessuna parte. Il buio l’ha resa cieca, ha annegato ogni cosa nell’unico colore che possiede. Vuole rispondere a quella voce ma, prima che possa aprire bocca, le parole le escono dritto dalla testa.

Io non so niente, non so! Io me ne voglio solo tornare a casa mia!

Niente più napoletano, soltanto un italiano stentato.

Così non mi riconosci… Guardami, allora.

Si avverte un spostamento d’aria, come se qualcuno avesse dato un forte schiaffo nel vento. In quell’attimo le nuvole si diradano lasciando apparire la faccia lattea della luna. Finalmente si possono distinguere i contorni degli alberi, il vallone, il sentiero col suo muretto a secco… ed una figura massiccia che si staglia alle sue spalle.

E lui, riverso sul letto ancora lordo del sangue di sua madre, già guarda il mondo che lo ha accolto attraverso quel suo enorme, unico occhio sbilenco. Il naso è solo un foro nella carne azzurrognola che, ad ogni respiro, produce delle bolle viscose. La bocca è pure sbilenca, spalancata sulla guancia destra; le labbra inesistenti lasciano scoperte gengive violacee e bozzolute già provviste di dentini disposti in maniera confusa e casuale. Un braccino è rattrappito, con un abbozzo di mano con due sole dita attaccata a quello che sembrerebbe un gomito. I piedi non ci sono, le gambette terminano con due orridi moncherini disuguali.

Maschio o femmina? Non si può dire, perché del sesso non c’è traccia.

E’ lui, ma non è più un neonato. Ora è un uomo grande e grosso, che si regge in piedi sui moncherini sanguinanti. Con quell’occhio sembra Polifemo, l’ha visto in televisione, una volta...

Ciao, nonnina.

La donna capisce che sta tornando il buio. Alza lo sguardo verso al cielo; gocce di pioggia s’instillano negli occhi come collirio. Sviene.

Quando riapre gli occhi è accolta dallo stesso chiarore lunare che aveva lasciato. Non è più sul sentiero, è di nuovo sul cratere, riconosce il corrimano di ferro. Ma dov’è lui?

Lui è ancora lì, accanto a lei, in paziente attesa.

Ma tu che vuoi da me?

Il ciclope si trascina di fronte. Le risponde con un’altra domanda.

Perché hai lasciato che accadesse? Perché hai permesso che quell’uomo facesse del male a tua figlia?

Il cranio pulsa come se contenesse il cuore invece del cervello.

Male? Ma quale male! A me fa male, quando mi gonfia di mazzate, quando a letto mi piglia peggio di una bestia! Con lei non fa quello che faceva con me… e poi Angela non sente niente!

Ne sei sicura? Guarda, allora.

Il ciclope le afferra la testa con la mano sana e stringe, stringe. Attraverso quella morsa le immagini arrivano direttamente agli occhi.