In una giornata plumbea e ventosa come quella, l’ultima cosa che avrebbe potuto attirare l’attenzione del custode all’ingresso era una donna, il volto seminascosto dal cappuccio, con un grosso zaino sulle spalle. Ne arrivano tante di donne che hanno superato da un pezzo l’età scolastica e non vengono di certo fermate solo perché indossano uno zaino. Di solito si tratta di turiste straniere, curve sotto il peso di carichi sproporzionati, qualcuna ci va per studiare il gigante addormentato. Lei era semplicemente una fra tante.
Imbacuccato nel logoro giaccone, l’uomo stacca il biglietto e la fa passare.
- Si chiude alle sette, signo’! Close at set. Oren zetten chiuzuren, ya? Nu chiudon a le set. Se chiude a le siette, segnor! - le grida dietro in un miscuglio d’inverosimili lingue straniere. La donna gli risponde con un cenno della mano.
A testa bassa si avvia per il Gran Cono, il sentiero che porta al cratere del Vesuvio. Di buon passo le ci vorrà circa un’ora.
Il fiatone non tarda a comparire. Dannate Camèl. Fiatone e inverno, un’accoppiata micidiale per le vie respiratorie. L’aria fredda comincia a bruciare nella gola e nei bronchi, i muscoli delle gambe iniziano a protestare per quell’inconsueta sfacchinata. Chissà poi perché la donna ha scelto proprio il Vesuvio, così vicino eppure così lontano da Napoli, specie se hai una vecchia scassarola per automobile. Così in alto, per una che fuma due pacchetti di sigarette al giorno.
Nonostante i suoi pensieri siano tutti convogliati e induriti dall’obiettivo di quell’escursione forzata, la donna non può non accorgersi del meraviglioso panorama: Monte Somma, e la Valle del Gigante inondata di grigio vomito lavico dal lontano 1944. Si ferma per qualche istante, si appoggia alla staccionata in legno che costeggia il sentiero, scosta il cappuccio e si lascia emozionare da ciò che gli occhi trasmettono all’anima. Può da un tale mostro nascere ‘na cosa accussì bella?
La donna si passa entrambe le mani tozze sul viso, lentamente, fino a stenderne la pelle in maniera innaturale, poi riposiziona il cappuccio, con un saltello sistema meglio le bretelle dello zaino e riprende a camminare. Non sembra affatto felice.
C’impiega più di un’ora per arrivare sul cratere. C’è. Appena mette piede sul terreno pianeggiante si ferma ancora, ansimante come una vaporiera, le mani appoggiate sulle ginocchia. Le cola il naso. Tirando fuori dalla tasca il fazzoletto le sfugge la guida con la mappa dei sentieri che vola via con una raffica di vento. Non fa niente. Che spettacolo però. Nonostante il grigiore, da lassù sembra di guardare una cartolina: il Golfo di Napoli, la Piana Campana col suo corredo di fazzoletti di terra.
Il Vesuvio, un vulcano in pausa di riflessione, un subdolo gigante che fa finta di dormire per lasciare che la vittima si avvicini e, vinta l’istintiva diffidenza, colonizzi e costruisca il nido sulla sua lava spenta. Dopo di lei ne verranno altre, e altre ancora. Il gioco è fatto, non gli resta che aprire la bocca, prima o poi. E, a giudicare dall’agglomerato urbano alle sue falde, di vittime incoscienti se ne sono avvicinate un bel po’.
La donna scosta di nuovo il cappuccio e si guarda intorno. Vede un paio di stupidi turisti, probabilmente tedeschi, a giudicare dalla carnagione biancastra, armati di macchine fotografiche superaccessoriate; solo dei crucchi potevano scegliere una giornata così merdosa per salire sul Vesuvio. Pazienza, se ne andranno tra non molto, pilotati dal loro senso civico riguardo la puntualità. Oren zetten chiuzuren, ya? Sinnò ve ‘nzerramm’ a dint’!
Cammina più lentamente, ora. Scruta, studia, valuta. Cerca un punto. Lo trova. Si avvia.
Com’è grande il cratere. E profondo. In alcuni punti sbuffano le fumarole, segno che il gigante è vivo e vegeto, e temibile. La donna si libera finalmente del grosso zaino, lo poggia a terra con delicatezza, ci si siede affianco, infila una mano in tasca e tira fuori le Camèl, ne accende una e ne aspira il fumo con voluttà, quasi in crisi d’astinenza. Tutta la vita, è ‘na fumata. I due tedeschi continuano a scattare insulse fotografie.
La sua fumata le ha portato una farsa di matrimonio a diciannove anni con un bastardo che passa più tempo in galera che a casa. E meglio così perché quando c’è si dedica volentieri ai suoi passatempi preferiti: ubriacarsi e struppiarla ‘e mazzate. Ne ha prese tante che non ci fa più caso. Per la verità ce ne sarebbe anche un altro, di passatempo, ma quello lei lo ha sempre voluto ignorare.
154 commenti
Aggiungi un commentoSottoscrivo in parte le considerazioni di Vajmax, premettendo per onestà che sono la prima a ritenere il parere che segue "poco autorevole" perchè davvero inesperto.
****SPOILER****
Il punto debole del racconto, per il poco che ne capisco, potrebbe essere nelle sue buone intenzioni.
Nella volontà, in primo luogo, di identificare nel degrado la culla della mostruosità.
Gli accadimenti orribili che si accumulano nella vita della protagonista e nell'antefatto del crimine, sono troppo forti e troppo numerosi.
Voglio dire: il marito violento, la figlia paralizzata, lo stupro incestuoso. Ognuna di queste cose, sola, è ripugnante abbastanza per strutturare il tracollo psicologico della protagonista e per delineare la sua anestesia morale da prostrazione.
Usarle tutte e tre è una scelta ingenua; attenua la responsabilità di un'assassina il cui dramma - stante un background che altrove avrebbe quietamente prodotto un assassino seriale da slasher, un vendicatore o un supereroe - impallidisce tra le sfumaturi truci dell'approccio giudicante e quelle politicamente corrette che tirano in ballo la società correa. Se qualcosa non mi sfugge, non era a questi orientamenti qualunquisti che la proposta dell'autrice voleva condursi.
Apprezzo alcune cose della storia, prima di tutto la volontà di collocarla in un ambiente preciso, localizzato anche dal ricorso al dialetto.Mi spiace però che questo sforzo di legarsi all'esistente, al concreto, si disperda parzialmente nell'accumulo di orrori di cronaca di cui sopra.
E' proprio questo ricorso all'eccesso a testimoniare un'effettiva lontananza dagli ambienti socioeconomici scelti come sfondo. Tratteggiati come un inferno amorale o come un paradiso della sopraffazione, questi bassifondi sembrano immaginati, come una favola del terrore, in stanze infinitamente lontane da quel panorama. Sembrano una fantasia terrificante, non un luogo che potremmo attraversare in macchina o forse guardare da una finestra. Non so se mi sono spiegata, ma l'effetto è quello di trovarsi davanti una scrittrice che descrive qualcosa che non conosce veramente (poi magari non è così, ma io parlo della pura impressione derivata dal racconto).
Questo non toglie che l'intuizione di base sia bella (il bambino deforme - ciclope e la bocca sacrificale del vulcano non sono per nulla immagini banali) e che le intenzioni che mi pare di aver intravisto siano rispettabilissime.
Forse è solo un racconto un po' "giovane", che opportunamente limato avrebbe reso più giustizia alle sue potenzialità.
Agony, le disgrazie non arrivano sempre una alla volta; se una ha la figlia paralizzata non è impossibile che abbia anche il marito violento, soprattutto in determinate realtà. Non sono certo parametri su cui giudicare una valutazione letteraria, in ogni modo. Non sono inverosimiglianze. Può succedere. Simonetta ha una capacità affabulatoria riconoscibilissima, anche grazie al fatto che conosce bene le zone di cui parla. Per il resto de gustibus...
Naturalmente ne sono consapevole. Ho sentito e visto accumuli di disgrazie anche più atroci, come chiunque. La mia obiezione infatti non era sul fatto che quel numero di tragedie non potesse verificarsi in una sola vità. Era sul modo in cui l'accumulo mi pareva incidesse sullo sviluppo del dramma, sulla situazione morale e psicologica della protagonista.
Sicuramente mi sono espressa male io.
Trovo questa affermazione è un po' lapidaria, Irene.
Ho premesso un certo livello di incompetenza e sottolineato a più riprese che si tratta dell'opinione di un lettore, non di una valutazione con chissà che pretesa critica. Tuttavia, perdonami, ma continuo a ritenere che rilevare le ripercussioni che una certa scelta a livello di trama potrebbe avere su un carattere, su un momento drammatico, non sia illegittimo.
Cioè, accetto e auspico che mi si contesti con un: "non concordo: l'avvenimento X non produce questo effetto sul momento Y, infatti...", ma mi riesce più difficile confrontarmi con un'obiezione che confuti il mio diritto a individuare relazioni tra elementi della trama ed esiti drammatici.
E' solo l'impressione che ho avuto, come ho scritto anche prima.
Ma il tuo appunto sicuramente è uno stimolo a rileggere il racconto tra qualche tempo, e magari a rivedere il mio giudizio, se necessario: accorgersi di avere sbagliato non è sempre così male
Comunque, solo per chiarire: non volevo essere sgradevole nè disconoscere le indubbie capacità dell'autrice, che del resto penso possa trovare molte e migliori conferme nell' aver vinto il premio e nell'aver pubblicato: sono soddisfazioni non da poco, di questi tempi, e non le si raggiunge facilmente senza meriti. Però credo anche che quando un autore e un editore accettano di mettere a disposizione uno spazio per i feedback un buon modo per ringraziarli dell'intrattenimento che ci ha offerto (pure gratuito in questo caso) sia usarlo con sincerità.
Ci mancherebbe! Anch'io facevo per discutere sull'argomento, mica per litigare
Ok! Mi premeva essere sicura di non aver passato un messaggio fraintendibile
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