Tiziano Sclavi torna a sceneggiare Dylan Dog dopo un lungo silenzio, nove gli anni di assenza.
A Sclavi servono poche parole per descrivere una straordinaria sofferenza, perché il dolore è un rumore confuso che non si riesce mai a dire del tutto. Il dolore è un’oscura presenza che non ha voce, odore o aspetto e non si può raccontare, un’ombra indistinta che si può solo percepire.
Protagonista di questo albo è Owen Travers, reso sordo dal silenzio che accompagna la sua vita da quando l’amata moglie Edith è morta. Il fantasma della donna accompagna le sue giornate, una quieta presenza che, nel tentativo di non farsi scorgere, non emette suono. Owen chiede aiuto a Dylan Dog che si lascia a sua volta risucchiare da un inesplicabile vortice di angoscia.
Sclavi conosce bene Dylan Dog e sa che nessuno riuscirà ad aiutarlo, né il fedele Groucho, né Madame Trelkovski che nulla può contro i suoi demoni interiori. È una lotta che l’indagatore dell’incubo dovrà combattere da solo, perché la ragione non si inabissi in acque oscure lasciandolo in balia di forze distruttive.
Questa di Sclavi è una storia semplice che noi tutti ben conosciamo, è la battaglia che ognuno di noi combatte per arrivare a fare la cosa giusta, fatta di domande alle quali solo noi stessi possiamo dare una risposta. È la battaglia che non sempre vinciamo.
La copertina è un foglio bianco, a rimarcare l’impossibilità di comunicare il male che ci si torce dentro, uno spazio pulito in cui tutto può succedere. Il bianco segna anche il passaggio di testimone tra il lavoro svolto fin’ora da Angelo Stano e il nuovo corso di Gigi Cavenago.
Dopo un lungo silenzio è un albo che spiazza, che con la chiarezza delle cose belle lascia senza fiato.
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