George A. Romero era l'ospite più atteso dell'edizione 2016 del Lucca Film Festival. Il maestro dell'orrore, durante la giornata di venerdì è stato insignito del riconoscimento alla carriera, sabato è stato poi protagonista della masterclass tenuta da Francesco Alò e Paolo Zelati. Riportiamo la trascrizione dell'intervista.
Secondo te cosa deve fare oggi un giovane aspirante regista che vuole iniziare questo mestiere?
Girate un piccolo film, dovete dimostrare di saper fare un film e di saperlo fare bene, non basta andare in giro a dire di saperlo fare! Girare qualcosa è molto più importante di andare in una scuola o a una università.
Girare, ma anche distribuire, che è importantissimo. Il giovane Romero, quello prima de La notte dei morti viventi, che sta a Pittsburgh, che gira filmati industriali come il giovane Godard, dove si trovava precisamente in quel momento? Qual era il senso della tua società di produzione, sapevi in che circuito sarebbero stati distribuiti quei filma?
Non ne avevamo alcuna idea. Facemmo quel film guidati unicamente dall’ottimismo. All’epoca però c’erano tanti piccoli distributori che potevano fermare i cinema. Oggi ci sono solo le major. È molto più facile fare film ma è impossibile ottenere una distribuzione perché ci si aspetta solo grandi successi. Io e il mio partner andavamo in giro in auto con La notte dei morti viventi nel bagagliaio: andammo a New York pensando di riuscire a distribuirlo. La Columbia era interessata, ma solo se avessimo cambiato il finale: dicemmo di no. Alla fine trovammo un distributore, la Walter Reade, ma era molto più facile all’epoca: a New York e Los Angeles c’erano molte piccole società indipendenti che potevano trovare gli schermi su cui proiettare. Alla fine l’unica cosa che conta è su quanti schermi verrà proiettato un film. All’epoca non pensavamo tanto a come distribuire un film, ovviamente speravamo di distribuirlo, ma non era il nostro principale obiettivo, volevamo fare un film, tutto qui, amavamo il cinema e avevamo grandi ambizioni. L’anteprima del film fu in un grande cinema a Pittsburgh, ma il giorno dopo andammo a vederlo su un grande drive in e solo a quel punto ci rendemmo conto di aver fatto veramente un film.
Quanto c’è di commerciale nell’intenzione di fare un film horror come La notte dei morti viventi in quel momento e in quel modo, e quanto c’è di inconscio e conscio di raccontare la vostra rabbia nel vedere la “Summer of Love” fallita, mentre i vostri amici si erano già messi giacca e cravatta per andare a lavorare a Wall Street?
Volevamo fare qualcosa di commerciale ma anche che comunicasse un messaggio in maniera sconvolgente. Ora non spaventa molto, ma all’epoca era terrificante: era in bianco e nero e penso che il sangue in bianco e nero abbia sempre molto più impatto. Non volevamo fare un film sulla razza, ma sul contesto sociale, sul fatto che la gente riesca a non essere d’accordo anche se succede qualcosa di terribile all’esterno…
Sì, i tuoi film sono sempre sui personaggi non sugli zombi…
Sì esatto, puoi togliere gli zombi e sostituirli con un tornado, è sempre e comunque incentrato sui personaggi, il messaggio è sempre quello. Cercammo di fare un film commerciale, pur prendendo una posizione. Certo, tornammo a girare alcune inquadrature extra per aggiungere gore alla scena del picnic… ma puntavamo a un certo equilibrio.
La notte dei morti viventi ha Duane Jones come protagonista. Sidney Poitier aveva vinto un Oscar da pochi anni, ma la vera rivoluzione della presenza di Jones nel vostro film è il fatto che questo non sia assolutamente un “problema”: la cinepresa non indugia sul fatto che sia di colore, come invece capitò sempre con Poitier. Quanto sei sincero quando dici che per voi non era effettivamente un problema? Jones era convinto che il finale c’entrasse con la sua etnia, e tu invece dicesti di no. Ovviamente ora dirai che è stato tutto un caso…
Onestamente non ne avevamo idea! Puoi vedere lo script originale, fatto malissimo e in maniera informale… lo trovi online… John Russo le vende in rete! Ben era caucasico nella nostra idea originale. Succedevano le stesse identiche cose, lui aveva lo stesso destino. Sono tutti elementi che hanno acquistato un valore solo successivamente. Quando io e Russo portammo la prima copia del film a New York, con il film nel bagagliaio, quella stessa notte sentimmo che M.L. King era stato assassinato. Ci guardammo in faccia e dicemmo: ops, questo cambia veramente tutto. Da allora pensammo al fatto che film contenesse un racial statement. Duane era un amico ed era l’attore migliore che ci era capitato di provinare. Lui era più preoccupato di noi di fare questo film, capiva bene il contesto storico: doveva colpire Barbara, ed era convinto che ci sarebbero state conseguenze con le reazioni del pubblico. Io e il mio partner invece gli dicevamo: tranquillo, è il 1968, i tempi sono cambiati! Eravamo ancora vittima del peace & love che poi ha fallito in maniera molto clamorosa. La vera differenza tra il Ben finale e quello originale: scrivemmo il personaggio, era uno tosto, parlava come Bogart, aveva i jeans e abiti da lavoro. Duane non voleva assolutamente vestirsi così e parlare così, voleva parlare normalmente ed essere vestito in maniera meno rozza.
Puoi raccontarci una cosa su Knightriders, il tuo film più personale? Non ebbe una gran fortuna in Italia…
È stato il mio film più personale. Il mio preferito è Wampyr, ma KnightRiders è un film su di me. Non avevo ancora lavorato a Hollywood e non volevo lavorarci, volevo fare un film su qualcuno che rimane coerente ai propri valori nonostante tutto, anche se ci perde e non è la migliore soluzione per lui. La testarda coerenza è il tema centrale del film. All’epoca ero a Pittsburgh e volevo rimanere lì e girare film. Ero testardo, volevo continuare a esserlo. Nel frattempo alcuni dei miei amici, Russo e Streiner, all’epoca avevano fatto la loro società di produzione e avevano intrapreso altre strade. Nel film dovevano esserci dei cavalli… ma il produttore Sam Arkoff, chiese di metterci delle motociclette… io me ne andai perché era una idea troppo hollywoodiana. Sei mesi dopo cambiai idea. Quindi alla fine è stato grazie a Hollywood se ho messo le motociclette.
Queste le domande dal pubblico.
Parliamo de L'ombra dello scorpione: a che punto eravate arrivati lei e Stephen King nello sviluppo della sua versione?
Quando ci stavo lavorando con King lui si rifiutò di farlo per la TV. Cercavamo dei finanziamenti ma lo script al quale stavamo lavorando durava tre ore e nessuno ci avrebbe fatto fare un film. All’epoca non c’erano i canali via cavo e la versione tv fu molto edulcorata, tagliarono moltissime scene. King odiò Shining così tanto da volerlo rifare, ma la versione di Kubrick è migliore. Potrebbe decidere di rifarlo ora, anche se dubito, e sarebbe bello se mi chiamasse.
Qual è stata la sfida più grande che hai dovuto affrontare all’inizio della tua carriera?
Difficile a dirsi, volevo fare ciò che facevo a tutti i costi, e mi limitavo a cercare delle soluzioni. Il punto ovviamente era sempre trovare i soldi, ma diciamo che all’epoca la cosa veramente difficile era imparare a usare la pellicola. I tempi sono cambiati: non c’era nemmeno il video, persino i notiziari erano in pellicola. I primi videogiornalisti sono stati effettivamente quelli che lavoravano nei laboratori di sviluppo. Diventai amico degli impiegati dei laboratori di sviluppo di Pittsburgh: mi insegnarono tutto loro. Una volta imparato a lavorare la pellicola, mi buttai a capofitto, l’obiettivo era ottenere abbastanza soldi per comprare le attrezzature di volta in volta.
Nei miei incubi gli zombi sono sempre andati piano. Per lei gli zombi possono correre?
Assolutamente no. Per citare lo sceriffo ne La notte dei morti viventi: “Sono morti, non ce la faranno mai”. Forse 28 giorni dopo… con un virus… ma se sono morti no, non corrono.
I tuoi film sono stati la cosa più copiata ovunque. Hanno fatto tantissimi remake, qual è quello meglio riuscito?
Penso che siano i videogiochi ad aver spinto maggiormente questo trend legato agli zombie. Li hanno resi più popolari, solo dopo Hollywood se n’è realmente accorta, investendo miliardi: c’è stato Brad Pitt, The Walking Dead… ora è impossibile finanziare un minuscolo film sugli zombie. È un business gigantesco, e mi dispiace perché c’è ancora spazio per piccoli film. I miei ultimi film sono costati 2 milioni. Penso che questo interesse per gli zombie finirà per calare dopo essere esploso grazie a Zombieland, WWZ, The Walking Dead… il remake di Zack Snyder… hanno tutti fatto moltissimi soldi. È un concetto che serve a esprimere il nostro disagio sociale, c’è un messaggio rivoluzionario, anche se in questa confusione è difficile che emerga. A Hollywood interessano solo i soldi.
Zack Snyder ed Edgar Wright hanno lavorato sulla scia dei suoi film. Che rapporto ha avuto con questi due registi e cosa ne pensa del loro lavoro?
Ho un ottimo rapporto con Edgar Wright, adoro Shaun of the Dead, mi mandarono una stampa del film quando ottenne una distribuzione da parte della Universal. Siamo amici e ci vediamo quando capita. Ha girato Scott Pilgrim a Toronto, dove vivo. Non ho mai incontrato Zack Snyder, i primi 15 minuti del suo film sono ottimi ma il resto non merita, non ho mai capito perché hanno fatto questo film.
È arrabbiato con i produttori italiani che hanno cambiato i suoi film e hanno cambiato anche i suoi titoli, inserendo le musiche dei Goblin? E cosa ne pensa di Zombi 2 di Fulci?
Per quanto riguarda gli zombie film, tutti i miei film hanno sempre avuto un messaggio che poteva essere di critica sociale o ironia tagliente, comunque un messaggio. Non trovo questo nei film che hanno fatto altri, e come dice sempre Stephen King quando gli chiedono “come ti senti quando Hollywood rovina i tuoi libri?”: “i miei libri stanno benissimo, sono qui dietro sulla mia libreria!” Io sono soddisfatto, sono riuscito a fare i film che volevo, come volevo. Per il resto, mi piacciono i Goblin. Quando io e Dario collaborammo a Zombi, mi disse che potevo fare quello che volevo per la versione USA, ma mi disse anche che avrebbe cambiato la versione per il pubblico europeo e io ero d’accordo, era un patto tra noi. Mi disse che potevo usare le musiche dei Goblin, e io scelsi di usare solo i passaggi di maggiore impatto. Il risultato è una colonna sonora un po’ schizofrenica…
Cosa ne pensa dei cinecomic?
Penso che i film che vengono dai fumetti devono essere molto costosi e pieni di effetti visivi… quindi sono meno interessato a farne. Non mi hanno mai interessato film ad alto budget. Ovviamente sono molto divertenti, non ci trovo molta arte, quella c’è nei fumetti originali: qualcosa si perde nella traduzione per il cinema. È difficile trovare una connessione emotiva con essi. Ho fatto due serie di fumetti: una per la DC qualche anno fa e ora ne sto facendo una per la Marvel. È una bella idea.
Domanda scomoda. Hai fatto tanti capolavori ma tutti ti conoscono per i tuoi film gli zombie. Hai fatto più film con gli zombie perché era utile per veicolare i tuoi concetti o perché vendevano di più?
È difficile rispondere, perché è difficile separare le due cose. Quando feci il primo film non pensavo nemmeno fossero zombie, li chiamavamo “quei cosi”. All’epoca, per noi, gli zombie erano quei tizi nei Caraibi. Volevamo una situazione enorme nel mondo e che i protagonisti la ignorassero rimanendo ancorati alla loro meschinità e continuando con la loro agenda, la storia era sulla mancanza di comunicazione. Siccome divenne un racial statement, e il film divenne molto più importante di quello che mi aspettassi arrivando spesso a essere persino male interpretato, decisi che non avrei mai più fatto una cosa così a meno che non avessi di nuovo un importante messaggio da comunicare. Poi visitai il centro commerciale di Pittsburgh e mi decisi a utilizzare di nuovo gli zombie per fare critica sociale e satira. Da allora ogni volta che volevo fare un film con gli zombie aspettavo l’idea giusta: originariamente volevo farne uno ogni dieci anni e riflettere su un decennio, sui suoi cambiamenti sociali.
Nel 93 gira la La metà oscura, ebbe molti problemi che le fecero interrompere il rapporto con le major e solo nel 2000 uscì un nuovo film, Bruiser, il personaggio di Flemyng ha voluto esternare la sua rabbia e il suo risentimento?
Decisamente, è stato il mio modo per commentare la cosa. Pensavo a me stesso, in quel periodo incontrai il mio attuale partner di produzione. Avevamo molte grandi produzioni interessate ma nessuno volle fare quei film. Scrissi tantissimo e incassai tanti soldi in quel periodo, senza però dirigere nessun film. La New Line Cinema ci pagava per andare in un ufficio… e non fecero mai nessun film. C’erano accordi con la MGM e la Fox… lo studio system funziona così. I dirigenti di Hollywood devono sapere di avere tutto a posto, vogliono le star, e la cosa era molto frustrante per un regista indipendente come me. Bruiser è una reazione a quello. Una volta andato in Canada ho trovato un nuovo giro molto più soddisfacente, anche come amici, quindi sarò sempre grato per quel periodo che è stato molto istruttivo. Mi convinsi definitivamente a non lavorare mai e poi mai a Hollywood, in Canada c’è un’etica del lavoro molto migliore. Quando lavorai a Hollywood mi resi conto dell’etica del lavoro in quel contesto: i sindacati, persone che lavorano per essere pagate e basta. In Canada si può parlare di dettagli con tutti, c’è un’etica nettamente migliore.
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