1) VAMPIRE. Il primo album dei Death SS si configura, in gran parte, come una sorta di raccolta di brani composti negli anni precedenti per cui, se da un lato la data di pubblicazione può risultare ovvia per quello che ci accingiamo ad ascoltare, non dobbiamo dimenticare che, innanzitutto, ci troviamo in Italia e, seconda cosa, gli embrioni di queste tracce risalgono a diversi anni addietro (la band si è formata nel 1977) e possono essere considerati fra i capostipiti di alcuni generi che nominerò nel corso dell’analisi.
I primi cinque brani sono dedicati ai personaggi incarnati dai membri della band. E' un omaggio al vecchio film dell’orrore, all’immaginario dell’occulto, e l’avanguardia della scelta tematica, unita alle soluzioni musicali per l’epoca e il luogo estreme, ne fa un prodotto originale e interessante. Alcune scelte, al giorno d’oggi, possono apparire ingenue e acerbe, ma è certo che, sin dall’apertura, con le campane e i versi dei rapaci notturni, ci troviamo di fronte a qualcosa di accattivante.
Il Vampiro narra le sue gesta con voce graffiante e minacciosa, orgoglioso della sua condizione, quasi insolente nei confronti delle limitate possibilità umane, ed è questo un modo per convincerci a farci assaporare il sangue ed entrare con lui nel “regno della notte”. La voce e le melodie vocali in genere hanno il ruolo principale in questo brano; il ritornello rimane tutt’oggi una delle prove di maggior presa dell’intera produzione della band: con la seconda sezione inizialmente raddoppiata all’unisono dalla chitarra solista, e poi protratta in strumentale fino alla ripresa vocale, pare volerci imprimere nella mente la melodia da ricordare fino alla replica.
Il recitativo si conclude con terrificanti grida e risate…
2) DEATH. …e contrasta con l’apertura del secondo brano, sommesso, costruito su un delicato arpeggio a opera di due chitarre. Quando la Morte, che sta in realtà assistendo alla sua sepoltura, comincia a percepire disagio (anche se non ha ancora capito cosa sta accadendo), l’impianto muta all’improvviso ed entrano tutti gli altri strumenti intorno a un energico riff. E' un brano assai complesso perché, se musicalmente parlando alcune sezioni sono associabili al trash, altre sono ricollegabili al metal di stampo classico e le tematiche stesse sono evidentemente ‘death’. Dato comunque che i brani sono guidati in prevalenza dal musicista che incarna il personaggio del titolo, e la Morte è con lo Zombie una delle due chitarre, la sei corde la fa da padrona. Quando il protagonista si accorge della sua condizione, le sue grida disperate (“Why? Why?”) si sono ormai perse in un assolo di chitarra che durerà circa un minuto e sarà seguito dalla chitarra ritmica in una marcia trasheggiante in cui la voce eseguirà dei semplici recitativi, infine distesi (nella bara…) in modo più melodico.
3) BLACK MUMMY. La ‘faraonica’ introduzione ci porta in tempi e luoghi completamente diversi. Il riff costruito su scale discendenti è angusto come i corridoi delle antiche tombe egizie e vertiginoso come bende che si sciolgono. La Mummia (il basso) gioca spesso con episodi solistici che spezzano l’andamento del brano e appaiono quasi scollegati dal resto dell’impianto, sia dal punto di vista ritmico, sia da quello armonico. Questa parte ‘squilibrata’ contrasta con sezioni più matematiche che arrivano alla lentezza e al rigore di una marcia funebre. Il Faraone è adesso impotente, può solo ricordare il suo antico splendore; né i curiosi che lo osservano nel museo possono comprendere le sue passate tragedie; ma la più grande è quella a cui è stato condannato dai sacerdoti stessi: esser costretto a continuare a vivere anche da morto.
4) ZOMBIE. Lo Zombie regge l’intero pezzo con il passaggio chitarristico che è, in effetti, il vero hook: cupo, tenebroso, ‘gotico’, si riflette nella linea melodica del ritornello che continua a strisciare nella nostra mente anche dopo l’ascolto dei brani successivi. Questa chitarra è un passo avanti rispetto alla Morte: lo Zombie torna a vivere ancora. “E' passato molto tempo dall’ultima volta in cui qualcuno ha pregato per lui” e neanche ricorda chi era né sa il motivo per cui è tornato; l’unica sua pulsione è uccidere. Il 4/4 descrive questo incedere quasi sovrappensiero, mentre ogni tanto torna la frase musicale, il tema dello Zombie; e la chitarra chiude il brano lasciando in sospeso i pensieri del personaggio e le sue possibili future azioni.
5) WEREWOLF. Ululati presentano il quinto e ultimo personaggio. La velocità è il tratto distintivo di questa traccia che, narrando il pensiero dell’Uomo Lupo, cede gran parte del suo spazio alle acrobazie della batteria ma, a mio avviso, la perla del brano è l’apertura in recitativo che introduce il personaggio in modo ironico e spiritoso, memore dell’entrata in scena di altri caratteristiche figure teatral-cinematografiche quali, per esempio, quelle del Rocky Horror Show. Il protagonista “si sente strano” e non sa cosa gli sta succedendo. La ‘muta’ avviene nella sezione in velocità e una ripresa del recitativo l’abbiamo quando la creatura si è ormai resa conto della sua condizione e annuncia i suoi propositi di assassinio; ma, adesso, l’ironia con cui insiste a mostrarsi, appare meno spiritosa a chi può immedesimarsi nella probabile vittima, e il brano si chiude con nuovi, funesti ululati.
6) TERROR. Terminata la galleria dei personaggi orrorifici saliamo un gradino nella scala della paura e arriviamo al terrore. Per quello che è probabilmente il capolavoro del disco, abbiamo ben oltre otto minuti, il primo dei quali è interamente dedicato a un vocio che pare riprendere sia i rapaci che gli ululati, e a una sorta di marcia per il patibolo. L’elettronica e le inflessioni della voce nella strofa hanno un sapore post-punk/new romantic, ma l’apice melodico è raggiunto dai passaggi di chitarra (presagiti dai precedenti intervalli di tastiera) in risposta alla voce nel ritornello, che paiono descrivere l’apertura sconfinata dell’immaginazione (?) umana: il protagonista in fuga s’è rifugiato in un antico cimitero ma, improvvisamente, ‘qualcosa’ sembra muoversi fra le tombe. Se inizialmente sembra trattarsi solo di “un parto della sua fantasia” già il secondo ritornello dimostrerà il contrario. Non appena “giunge l’ora” del personaggio, solo il basso, fra sinistri rumori di sottofondo, resta a riecheggiare il tema del ritornello; infine la chitarra solista si lancia in un ampio sviluppo dei precedenti passaggi che si chiude con una ripresa del ritornello.
Il finale teatrale registra, fra colpi d’ascia a opera della chitarra ritmica, i tentativi di difesa del protagonista che si concludono con il grido che è, così come il titolo stesso, la sintesi tematica dell’intero brano.
7) I LOVE THE DEAD. Più che una cover di Alice Cooper potremmo chiamarla “brano liberamente tratto da…” perché ciò che resta dell’originale è in definitiva il titolo nella linea melodica del ritornello, più una manciata di versi che si contano sulle dita di una mano. Nuove liriche si aggiungono per descrivere l’appuntamento galante con “la più dolce delle spose”, ovvero la Morte. Se il brano di Cooper appariva ancora un’evoluzione di ciò che avevano lasciato in eredità i Beatles del secondo periodo, unita al contemporaneo gusto per la rock-opera, la rivisitazione dei Death SS si presenta smisuratamente più aggressiva ed estrema.
8) THE HANGED BALLAD. La narrazione della voce solista, per la quasi totale durata del brano (oltre otto minuti), è sostenuta solo da un tappeto di tastiera e da un arpeggio di chitarra. La medesima linea melodica, ciondolante come un impiccato, è cantilenata, si pone fra la ninna-nanna e il lamento funebre, a ripetizione: quello che può apparire un ritornello è in realtà una conclusione melodica, un verse affine alla melodia di base, nella costruzione tipica delle ballate cantautoriali.
Sorprendentemente, l’ultimo minuto è invaso da suoni discordanti e caotici intrecci elettronici che rendono la voce stessa rumore disturbante, forse quanto la vista di spoglie mortali per le cui anime dannate nessuno se la sente di pregare.
9) MURDER ANGELS. “La terra ha esaurito ogni sua risorsa”, ma sono stati gli uomini stessi a porre i presupposti per cui gli Angeli della Morte venissero a distruggere, con un’eroica e rapida cavalcata, tutto ciò che rimane. Il disco, dopo orrori immaginari, si chiude dunque con una sferzata sarcastica nei confronti del Male quotidiano che si annida in ognuno di noi. Un inno ecologico alla Terra, un’accusa agli uomini moderni e alle loro maledette invenzioni. Uno speed metal di stampo classico, retto da doppia cassa e riff ridotto ai minimi termini, ma incisivo. Il rapido congedo è anche il brano più breve dell’intero disco, talmente ‘sbrigativo’ da mangiare sillabe della linea vocale, quasi a non voler sprecar fiato per discutere con persone che tanto non ascolteranno mai.
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